alessandro ricci
Alessandro Ricci
“Tutte le poesie” (Europa
Edizioni, 2019)
Singolare esito questo volume
antologico, curato da Francesco Dalessandro, che ripropone l’insieme dell’opera
poetica di Alessandro Ricci (1943-2004), figura particolarmente appartata e di
profonda espressione stilistica. Il volume contiene i due titoli pubblicati in
vita dall’autore (“Le segnalazioni mediante i fuochi”, “Indagini sul crollo”) e
i tre editi postumi (“I cavalli del nemico”, “L’arpa romana”, “L’editto
finale”). Come afferma Michele Ortore nella prefazione, la scrittura di Ricci è
complessa ma per lo più “ragionativa”; aggiungerei particolarmente sofferta e
attraversata da due corsi che anelano alla partecipazione esegetica. Da un lato
la memoria storica e mitica che affonda le radici nei più articolati
riferimenti all’antichità classica, dall’altro il personale e privato sentire
posto all’offerta della pagina, l’io denudato da orpelli e svelato nel pudore
del concesso; tale solo perché combattuto come ogni amore lacerato. Una
connotazione evidente lo porta spesso all’uso calibrato del poemetto, ma sempre
in una formula che riesce a valorizzare la tenuta timbrica del verso anche
nell’approccio discorsivo, differenziandosi nettamente su questo piano da
sviluppi e recuperi storicamente evocati da nomi e voci come avviene ad esempio
nelle formule del monologo in versi proprio di un autore come Roberto Mussapi.
Nella poetica di Ricci il tono è totalmente autentico, a volte irritato per una
postura in esistenza mai scontata o prevedibile. L’appello della sua voce sulla
pagina impone attenzione e domanda, quella ricezione accorta che scorge il
guizzo esponenziale dove nasce inatteso. Al di là di un impianto ricco di
sintagmi colti, latinismi, grecismi, arcaismi e tonalità policrome, quindi
anche tracciate da espressioni più concrete e dicibili, una compattezza severa
ed esigente conclude l’operato sulla pagina nel momento definitivo della
delimitazione di ciò che svolge e che conquista inoltre il diritto alla
vocalità immediata resa pensosa dall’uso dell’enjambement, dal dubbio che
chiede prove d’amore impossibili. Ricci sembra quasi richiamare un dio a cui
dice di non cedere, affacciandosi alla necessità della bellezza nella sua
peculiare presenza in ogni cosa, pensando che la religiosità cristiana sostenga
che bella sia l’anima sola. Tutto il contrario. E’ proprio il Cristianesimo, in
realtà, quello autentico, che trova la bellezza nel concreto seme più piccolo,
nella sua beltà creaturale ancora indifesa, proprio perché il cuore del
messaggio evangelico ci rivela che il Regno è già tra noi, e qualsiasi
intolleranza non può certo essere giustificata da chi ci invita persino ad
amare i nemici. La domanda del poeta, allora, affonda nel solco della distribuzione
di un bisogno emotivo, struggente e, allo stesso tempo, culturale, che sia
auspicio di una vertigine pagata col prezzo della disputa, dell’irrequieto
accadere dei crolli reiterati. Chi legge è spinto alla voglia di dialogare con
l’autore, di soffermarsi su parentesi di trattato alla luce di una esigenza
esistenziale misurata nella solidità di una figurazione mai gratuita, scontata;
sempre acuta, invece, interrogativa, esigente perché mossa da quel rovello
interiore e perenne che rivela l’intimità dell’artefice, lo nutre di squarci
quotidiani e mitici che s’intrecciano. Particolarmente suggestivo anche l’uso
del verso breve: “Nel golfo balenavano/ le correnti soltanto,/ in mosse pigre
di nuvola”; quando è accorto il sentire di ciò che scuote, agita, “ed è già
ieri, dilaga/ l’appena stato”, e ancora: “Poi ricomincia./ E’ una fine
potente,/ spettacolare, da/ vergognarsi”. Il luogo, la topografia romana in
particolare emerge in tratti estremamente nitidi e incisi, a volte quasi
scolpiti da perizia nomade, perciò indocile: “Come hai fatto a estrarre un
cielo/ dai tetti e rondini valorose e il colore/ ocra della città, o le
conversazioni...”. Una maestria poietica concentra strutture lessicali in
imprevisti innesti che rendono acuti e profondi i confini della versificazione
e positivamente stupisce il tocco maturo del rimando: “Già dunque oltreautunno
è arrivato qui,/ è carica la strada di gente calda/ sotto i cappotti e che
chiasso bene o male/ si leva, tamburo assai più di pifferi cresce/ e sale ma
non sbarazza/ questo freddo improvviso...”. Il tono di Alessandro Ricci è
temerario, le sue strofe sanno dirsi pensanti e variabili nella lunghezza, in
una conduzione abile e attenta del periodo; riavvolte nell’abdicazione a ciò
che imprime l’usuale, scegliendo il recupero accolto nelle trepidazioni che
guardano a storie e cenni proponenti le peculiarità dei riflessi classici di
miti trascinati sulla strada randagia del vissuto, e quando le parole si fanno
più comuni e transitabili è allora, in quel momento, che l’avvenuto rilascio
pone i vocaboli in una successione imprevista. Li mischia nella concretezza del
loro essere scrittura di pensiero. A volte, in lontananza, sembra di cogliere
echi della poesia di Leopardi e Pascoli, annunci di un cammino nella vanità del
tutto sul far della sera. Ricci è autore che incide i suoi versi sulla pelle
del vissuto, in una partecipazione che non può dirsi mai parziale, ma
interamente testimoniata dalla stessa forza di una corporeità gettata nello
spazio della pagina quale luogo da abitare nella consapevolezza dello stesso
rischio esistenziale. “Vissi della corona sul picco,/ il tempio nell’astratta
nube/ di devozione che saliva, scoprendo poco/ a poco la linea di confine
errante/ fra mare e rena, nella stagione nata/ insieme al giorno, all’ora...”;
è l’erranza quindi in una visione duplice del vagare e del poter sbagliare, in
una profonda domanda che incunea e svolge inquietudini agostiniane. C’é poi un
senso di rimpianto diffuso echeggiante figure femminili, amori che hanno
deluso; domanda sulla possibilità di trattenere qualcosa che inevitabilmente
sfugge o non mantiene la peculiarità della promessa. I tempi si avvicinano,
s’intrecciano; la sofferenza di Catullo è quella del contemporaneo sentire che
ridisegna le agnizioni e ripete i timbri inagibili del rifiuto, dell’attardato
ritrarsi, dell’inappagato contorno. Molto evocata la figura del padre, un
riferimento di forte ausilio, una memoria esperita nella disanima del legame
apparentemente perduto, scrive Alessandro Ricci: “E poi mai, mai/ potrò dirtelo
e toccarti di nuovo”. Ma noi sappiamo che ogni bene consacra, rimane; così
confidiamo in un incontro avvenuto, presente, notando che ancora “laggiù si
leva/ il fumo delle colazioni”.