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mauro roversi

MAURO ROVERSI MONACO "BOLLE DI BOSCH" (BOOK EDITORE, 2011)

L’apertura del primo testo concede un’immediatezza d’attimo; sentori di umidi scogli e risacche attraverso cinque versi caratterizzati dal collegamento delle assonanze. Il mormorio è quello che inaugura l’opera poetica di Mauro Roversi Monaco “Bolle di Bosch” (Book Editore, 2011). E da subito irrompono gravidi tegumenti, muscoli, nervi, arterie e vene, in una fisiologia foneticamente accesa da un’indole mobile che affronta categorie decisive quali tempo e spazio, vita e morte, evidenze sottolineate attraverso una incisione anche ironica. Il manifesto articolarsi della successione linguistica si adopera per una ribaltata effusiva metamorfosi che costringe alla visione sonora dei grumi sillabici: “l’occiduo paracarro che inghirlanda/ d’ombra bislunga la strada ai crepuscoli”. Sembra che il contrasto cromatico si faccia attesa inquieta di eventi che insinuano timori ma anche possibili svolte impreviste, tali da destrutturare ogni ponte infisso. Il senso d’inutilità però incombe e si crea varchi nella riflessione avviata e percepita, non rimandabile ad ulteriori ipotizzabili stagioni. Il lievito naturale acquisisce facoltà protettiva e lenisce dai fatti del giorno, conquista semantiche identità e inappellabili strumenti quali ombrosi ripari nella costante domanda. Lo stile di Roversi Monaco è maturo, solcato da “matericità” grumose e seriali, attinenti a tripudi e grida, accadimenti e simmetrie, svolgimenti poematici responsabilmente consapevoli. E tuttavia ciò non esclude una forma che sembra non ancora definitiva, ma calibrata su intermittenze e alternanze di spessore. C’è un’attesa che si mostra, allo stesso tempo, come domanda d’identità maieutica, rivolta al dubbioso sentire la precarietà stessa dei ruoli e dei gesti. Il soccorso richiesto per affrontare incubi mai del tutto allontanabili che rivelano le profondità di una psiche mutevole e complessa. L’incertezza è nella volontà propria dell’autore di evocare una testimonianza d’esistenza attraverso la fisicità minerale degli elementi, come il ricercare le proprie ossa quali tracce di un accaduto rappresentato da reperti; da dove nascono e in cui si estinguono drammi, azioni, movimenti, speranze, illusioni, tonalità storicizzate in anteposti sostantivi che conducono ad ammissioni di sconfitta. L’ossessione della morte si fa tema cardine di un ragionamento interrogativo sull’esito estremo nelle fasi in cui appare costante il quesito circa l’estenuata attesa caratterizzante l’umana finitudine. Nel gorgo applicato alla pagina vengono a ritrovarsi tabulati equanimi e vie egemoni, ammoniacali regalie, lupini, popcorn... salsedini e oscurità alternano il passo con arie e mari, l’effimero spartisce con il solenne la tracciabilità della provocazione lirica. Che dire di un abito dismesso nel momento in cui si fa cosciente la possibile necessità di un recupero? Sembra quasi di scorgere uno sfondo teatrale dove l’unica fonte acustica sia rappresentata dalla buca del suggeritore, celata eppure preziosa nel suo farsi faro per naviganti incerti. Mauro Roversi Monaco confessa il suo timore esistenziale nell’appello ad un arcaismo intermittente depotenziato dalla tracciabilità insorta dell’ironia amara. L’accostamento dei vocaboli “in moto” cede al corrosivo protrarsi delle staticità subìte nella sospensione dei tracciati vitali che si prospettano come inalienabili eventi potenzialmente sussistenti perché costitutivi del nostro piagato esserci. E’ “cupio dissolvi” amaro che incombe e si diluisce tra le sillabe rocciose in passaggi volutamente discontinui nel tono e nel ritmo, quasi a ritrarre verbali anfratti e ostacoli, consonantici traumi e spigoli irti... tali da far dire all’autore: “ci uccide ciò che non abbiamo fatto”. C’è un pessimismo leopardiano che trasforma il chiaro apparente e illusorio in uno scuro tangibile e inevitabile ma, se tutto questo affronta Mauro Roversi Monaco nel suo testo, non può essere totalmente ignorata la domanda esistenziale portante che concede viste improvvise su carnose stelle alpine o febbrili lucertole, densi agglomerati che si stemperano in ironie improvvise e parlate, quando il ruolo diviene quello di chi porta: “ so soltanto che sono un cameriere: / servo parole, residui, echi d’esse”... ma sono parole che mediano fra lo spirituale ed il corporeo, volendo caparbiamente rappresentare un aritmico e instabile alternarsi di livelli espressivi.                                                                





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