PÉTER ESTERHÀZY
PÉTER ESTERHÀZY "ESTI" (GIANGIACOMO FELTRINELLI EDITORE,2017)
“Esti” era il nome con cui l’autore, Péter Esterhàzy, ungherese scomparso nel 2016, veniva chiamato dai compagni d’università. Il libro che ci ritroviamo è un vero e proprio caleidoscopio stilistico; un viaggio periglioso in una lingua utilizzata in formule esplicitamente creative per settantasette interventi costitutivi di un’anomala autobiografia. Impresa complessa la traduzione d’autore realizzata da Giorgio Pressburger, comprendente accensioni a flusso, compressione di poemetti in prosa, incastri espressivi cooperanti nella drastica cucitura d’intervalli prosastici. Esegesi austera di un teatro d’identità che permette a Esterhàzy l’encomio per una tessitura composita in ambientazioni spaziali e temporali ubique. La materiosa cupidigia dei sensi si pone in antitesi con un’algida spoliazione dei sensibili elementi nell’affrontare traumi etichettabili, ampliamente codificati in gesti narrati. La storia stessa dell’Ungheria è attraversata dai rapporti intimi e dai confronti con una multiculturalità in cui il portoghese diventa il linguaggio dei fiori e il tedesco quello del pensiero. Nonostante ciò, e proprio perché l’identità deve difendersi dal suo subire una moltiplicazione incontrollata, si dice che “un uomo distinto deve parlare una sola lingua”. Certi compatti brani al confine di un espressionismo ironico contendono alla voce osservante il privilegio dell’arazzo colto. E’ un gravare mitteleuropeo su inciampi di penna e complessità delle mutazioni; l’opportunità della finitezza convive con ebbrezze all’alba, muri, segreti di cassette postali, preoccupazioni d’officina, frammenti, vezzosità, lussurie, abissi metafisici, preghiere inconsuete, donne dominatrici, prodezze disattese, riflessioni sulla morte, capitoli di un’autobiografia in atto che trasforma la sua odissea in un processo dialettico. Un raro esempio di scrittura d’arte mai prevedibile, un felice e originale esito difficilmente collocabile all’interno di un’unica categoria critica. Si contendono così il passo sinestesie di sfumature policrome, nelle quali i colori si nominano in forme aspiranti alla significazione e una traccia corposa di contaminazioni deborda in avviluppi linguistici arcaici con digressioni che si fanno aperture semantiche ulteriori. Sostanzialmente la procedura testuale di Esterhàzy coniuga una prosa creativa in forma di concatenazione episodica non risolta, destabilizzante, tendente alla individuazione di tracce possibilmente cumulabili in una sorta di labirinto-vita quale successione di similitudini sovraesposte. La visibilità surreale scorre in una partitura che sempre richiederebbe la brevità incisiva; ma qui l’autore decide l’arbitrio di passaggi anche più estesi dove appaiono segni grafici atti alla elencazione costituita da frequenti fratture o intervalli, in annotazioni sia materiche che concettuali. L’opera di Péter Esterhàzy si evidenzia per la capacità di disegnare sulla pagina una scrittura scaturita dalla progettualità dinamica propria di una genesi imprevista che si pone il quesito esistenziale decisivo sulla vita e sulla natura della domanda tesa a muovere la mente verso una tormentata ricerca anche perché, ci dice l’autore, “la fine del mondo è l’inizio del mondo”.