tommaso ottonieri
TOMMASO OTTONIERI "GEÒDI" (NINO ARAGNO EDITORE, 2015)
I geòdi sono scrigni levigati dalla lava che al loro interno contengono formazioni cristalline. “Geòdi” è il titolo del libro di poesie firmato da Tommaso Ottonieri, autore di particolarissima originalità stilistica, operatore del linguaggio attraverso sapienti rivisitazioni e suggestioni tratte dalle più varie avanguardie novecentesche sino ad arrivare, alle soglie della poetica avventura, a moti e smalti stilnovistici, come bene afferma nel suo commento Andrea Cortellessa. La diversificazione delle tecniche di scrittura che si concretizza nel passaggio delle pagine è di una ricchezza e capacità rare, attraverso l’evidenza colta nella formula definita dal dispiegarsi inarrestabile dei connotati a verso e suono passanti nelle tonalità che vanno dal sintagma incisivo alla prosa poetica. Se creativa è la scrittura d’arte, qui si condensano maestrie alchemiche e vigilanti rotazioni, impreviste variazioni e condensazioni caleidoscopiche, onde elettriche e colori agghiacciati, frammenti alla Eliot e conglomerati alla Zanzotto. Sussiste, feroce, la necessità di rapportarsi a “lame di cristallo” e “vortici di cunicoli”, “il cono di un tornado a inghiottire le sponde...” perché l’autore parla di un “suono in sé sparso” dove spinte e flussi concentrano la dinamica dell’esclusione. La fisica dei dettagli torce il senso e accosta a superfici rovesciate, tra specchi e scintille di un caos aurorale e primigenio. La devastazione è attesa attribuibile alla precarietà dei nessi, alle peculiarità dei tratti fissati nella diramazione elucubrante ma mai estenuata. Fondali ove polveri e schegge originano fiotti avulsi dai suoni perforanti oceani, ombre e coralli che anticipano un diluvio. Dal tratto poematico in flusso alla terzina essenziale, dalla determinazione di versi asimmetrici dilatati dagli spazi a orizzontalità prosodiche... nulla manca alla tessitura poetica di Ottonieri, irrobustita dalla valenza corposa e magistrale del lessico pregiato e reso tenacemente materico, senza dimenticare il passo ritmico della rappresentabilità orale. E si susseguono nell’andare a disegno di nastro tensioni vegetali, minerali, colanti in altri fondali ove l’umore che li contiene è voce che non esclude l’umano vibrare di nuca, “per l’attesa dell’onda di risacca in sepoltura l’acqua/ è il peso”. Elementi fluviali disegnano un tracciato di scaglie e squame; mappe innestano concentrazioni solide linguisticamente calcate sulla pagina in spazialità dilatate e assonanze esigibili. Affiora il lamento civile come, ad esempio, la tragica resa alle acque dei corpi dei migranti, “barconi carichi di viventi/ che l’impeto dei venti...” espropria di connotazioni prospettiche. Da solari disgusti scendono sempiterni contorni a delimitare ipogei granulosi e voragini cromatiche rese in un’architettura versificata talmente accorta nell’abitare lo spazio da farsi dinamica orchestrazione sillabica negli alternati innesti di sintagmi e versi lunghi composti nel rigore delle visive pause raffiguranti il solido telaio delle connessioni. Il farsi in flusso è poi conato di corpo, turgido passare al lieve espediente che assolve il tentativo errante della iterazione accudente. L’incontro/scontro con i tasselli magmatici è operante, eviscerata esperienza notturna dove per notte s’intende abito sostanziale del timore che rifugge dal previsto e cerca abitabilità diroccata, quindi mancante, se non riscattata da una prodigiosa poiesi allitterativa. Di fronte alla insipiente cerimonia di tanti critici “togati” a sostegno di mediocrità imbarazzanti elevate ad esempio, cosa dovrebbe allora meritare un testo come quello che stiamo commentando, dove l’equilibrio tra costituzione del verso e approdo spaziale nella pagina testimonia una vocazione poetica da “miglior fabbro”, vertice di tecnica operativa e significante. Certo un tale risultato richiede palati adeguati, capacità di ricezione raffinata, ma l’esito che si potrà raggiungere, nel caso di una esegesi attenta, sarà costruzione di una impalcatura talmente solida da permettere la scalata epifanica: “sudori stilla e geme ignota la materia.../ scopre i contatti spenti dei metalli e al fondo stelle accende/ ci consuma”. L’uso parentetico poi non chiude ma, all’opposto, concede evidenza di sbalzi a uscita ove l’elemento umido, il flusso, il seme ingravida a precipizio nelle acque che riconducono ad un inizio, una origine che si rinnova e completa la salina consistenza dell’intarsio ineludibile. Tutti gli elementi, comunque, sanno testimoniare anche la condizione glaciale dei tratti quando solo l’innesto interpretativo li pone a costituirsi segnali di una codificazione ulteriore e, allo stesso tempo, arcaica. La caratura dei versi è molteplice, la figura si essenzializza e si dilata in successione, poiché gli elementi conducono la germinazione fecondativa nei susseguenti strati che la stessa griglia del testo scolpisce nella variazione esprimente. Dal fondo delle miniere, le gocce stillano e parlano di sofferenze e segni a testimonianza di percorsi trattenuti nelle memorie singole come nelle eviscerazioni epocali. Anche il susseguirsi di versi a onde non manca e costruisce un impianto fluido nel quale la collocazione iniziale muove a diverse altezze e livelli lo spezzarsi dei passaggi come a giungere mossi presso una visibile battigia raffigurata dalla spazialità della pagina. E la compattezza minerale dell’ultima sezione in prosa concentra la concatenazione irriducibile ad una successione prevista che viene totalmente ed efficacemente scardinata dal magistero poetico di Ottonieri in descrizione foneticamente avvolgente degli elementi inerenti a sostanze mostruose e chimiche portatrici di veleni inferti all’ecosistema, trasformato in lande di terrestri inferi.