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ADELIO FUSÉ "LA VEGLIA DEL SONNAMBULO" (BOOK EDITORE, 2016)

Adelio Fusé è uno dei più interessanti poeti italiani contemporanei. Lo è per la capacità di costruire sulla pagina un impianto linguistico che ha i tratti di una architettura imprevista e, nello stesso tempo, rigorosa come l’esercizio della variazione filologica. Il suo non è mai un percorso sperimentale ma una vera e propria scrittura di ricerca intenta ad approfondire le traiettorie concettuali possibili per una significazione ulteriore, al di là dell’immediato. Equilibrio ardito di trafitture e spazi, di misure compiutamente raccolte nella formula della partitura musicale attuabile in esecuzione virtuosa. Il suo scrivere può anche permettersi il non ritorno del boomerang, la clessidra distesa, lo specchio bifronte, la scacchiera obliqua. Dopo la quadrilogia dedicata agli oggetti anomali, ci giunge “La veglia del sonnambulo” dove l’attenzione all’irregolarità s’indirizza alle persone e, nel caso specifico, ad un soggetto sonnambulo in apparente stato di veglia. La raffinatezza peculiare e davvero rara compone una sequenza in chiave di poemetto, e per comprendere la vastità e l’esegesi vocativa basterebbe soffermarsi sul testo riprodotto in quarta di copertina. Lì c’è già tutta l’esperienza mutevole e impervia dell’osservatore che scrive e di sé lascia tracce di scolta tra punti cardinali e figure geometriche, estri e divergenze, specificazioni dimensionali e retaggi fisiologici, sottofondi fonetici e accenni estatici... “da lento veloce ruoto/di vedetta m’impernio”. C’è da restare stupiti di fronte all’esattezza dicibile del verso, dove la condizione del viaggio, inalienabile comunque nelle sue varie attuazioni, è quasi proposta di validità perenne, esaustiva e abile, frutto di una notte d’inverno o della introversa macerazione che tocca l’esodo. Un saggio si potrebbe tessere sull’unico passo che costituisce il frammento di un poemetto, appunto, forse esploso. La domanda si concentra sull’iterazione di luogo ove la fisicità delle tracce conduce ad una interrogazione ineludibile accorpata nei segni di una presenza umana che, in questo testo, avvia la proposta dialogica e interlocutoria. Pericolo per l’autore che, fino ad ora, aveva spaziato per lo più su elementi oggettuali nella loro “cosalità” materiosa; qui il confronto si fa più delicato avendo come protagonista l’uomo ed essendo egli, come sappiamo, l’unico ente capace di pensare l’essere. Una teoria aristotelico-tomistica della conoscenza distingue “cognitio” e “scientia” interpretando il concetto di conoscenza stessa come un concetto analogico, e molto ci sarebbe da dire circa una scelta “esternista” rispetto ad una “internista” più correlata al “cogito”. Ma Fusé in questo suo lavoro poetico spinge oltre, assume la volontà caparbia di eviscerare nel compendio delle fasi, la nostra intuizione primaria. L’enorme complessità del semplice tutto, attraverso l’inizio di una storia possibile, praticabile, osservabile, dicibile. Allitterazioni distribuite, ossimori concentrati, dettano icastici mattini e colori scintillanti, dove il passato è capacità di stupirsi, facoltà eminentemente filosofica. Sì, in questa tappa poetica, Adelio Fusé vuole raccontare, nonostante l’apparente equivoco esistenziale, una discesa/salita alle soglie della stessa possibilità d’interpretare. Quasi un trattato logico deviato in odissea ermeneutica che sa cogliere la fondante importanza dell’inizio. E solo se mancasse tale inizio, allora il senso stesso sarebbe mancante... ma l’avvio è avvenuto, praticato, ancorato alla sorte della mobilità che è mutamento, capacità di avvedersi del particolare che in quanto frammento costringe all’esistenza l’insieme, e lo ricompone assemblando i nuclei dispersi. L’epistemologia seduce attraverso l’accenno all’alternativa praticabile dalla spazialità evocata e riassorbita nello strumento verbale che la esprime. Si diceva di un moto...ciò conduce al passaggio etico che dona un compito alla scrittura. John Haldane diceva che il passaggio da un’etica della legge ad una delle virtù non consiste in un mutamento di direzione ma nell’acquisizione di un principio nuovo di movimento dall’interno; così come dall’interno del linguaggio il dinamismo necessario si trasforma in modificazione cognitiva. Episodi in assonanze e grumi consonantici determinano l’evoluzione di stati mutanti in colori e temperature, in livelli di spazio e alterazioni umbratili; in desideri e pene, attese e furie, ove il pensiero stesso non si risparmia l’estro dello stoscio. La fisiognomica è sedata a riportare balsamo in effluvi che dimensionano corpi anche vegetali e animali, attraverso un creaturale che si fa fremente; si compone in tasselli che disegnano una sorta di battello ebbro che s’ingela. E non manca la deriva notturna e birrosa dove assemblare un senso anche posticcio... “Hybrid Moon Hotel is my Carwash :/ spergiura così in soliloquio l’insegna”. Dimorano qui fili e rami, impeti e rupi, pendii e urla, tuffi e torrenti, in una costruzione del verso che non esclude la scomposizione e il ricompattamento delle parti, in modulate composizioni di termini che i sensi decifrano. L’autore si riconosce come primo sonnambulo in veglia e si connota come una identità franta: “io sono e non sono ma sono.../ sono il fare che non farò”. C’è un perdurare nelle flessuosità aritmiche del tempo, tra le anse delle veggenze in procinto di rivelare la determinazione dei passaggi attraverso le dune poste ai lati del pellegrinaggio incompiuto e nel quale riponiamo la nostra speranza di dolenti. D’altra parte “l’ora precetta la notte e illusa si slunga” scrive Fusé, quando il dominio delle sfumature riflessive è desueto alternare brillii smunti e sguardi di lame. Un Uno emerge intriso di spasmi e ci parla accudendoci mentre noi siamo inermi testimoni di sconfitte ed esili, cercando il labirintico schema che la parola nel suo potenziale farsi ci concede; allora l’osservazione si definisce in spessore, in traiettoria, in volume quando “qui tocca vivere/ da sonnambuli rabdomanti/ nella sete di un respiro caparbio”... così la “viandanza” si fa ontologica e approda ad un ente concreto, un luogo fisico che è l’Isola (le note ci dicono essere Stromboli) a concretizzare il correlativo epifanico di un desiderio tangibile. Non è un caso che il libro si concluda con un brano poetico tratto da un testo di Roberto Sanesi, altro appartato e raffinato esecutore di effetti nei quali la lingua risponde ad un rigore altissimo.


LETTERA PER ADELIO FUSÉ "L'OBLIQUA SCACCHIERA" (BOOK EDITORE,2012) E. 13,00

Caro Adelio,
ho letto il tuo "L'obliqua scacchiera". Già mi ha colpito il testo di quarta..."accanto al mio eremo è un masso/sul pinnacolo all'inverso rotolato"... un perfetto equilibrio acustico e fonetico dove anche l'assonanza che unisce l'ultimo vocabolo del primo verso che si realizza nel rapporto con il penultimo del secondo, concede proprio quella "diagonalità" obliqua (quasi sintattica) operosa nell'evocare la perizia, appunto, inaspettata e colma di una allitterazione consonantica non regolare ma quasi anticipatrice di quella già compatta della seconda strofa. La rivelazione filosofica, la teoretica agnizione degli oggetti anomali, conduce all'assolvibile condizione linguistica corposa e sinergica, dove la figura è intarsio materico quasi da arte visiva; non nella versione, ovviamente, che fu della poesia visuale, totalmente altra da questa...qui non sono le linee figurative che diventano segni verbali, ma la lingua che, all'opposto, si fa
essa stessa complesso scultoreo. Ora, davvero, la domanda si pone...chi l'antagonista? I testi della prima parte mi sono sembrati esprimere una nuova, particolare intenzione comunicativa verso l'accennare ad un disegno di un
mistero da porsi, nel tono evocante un noir anomalo. Richiami possibili di figure a compimento del recupero temporale auspicato e inseguito. Ma il fermo immagine, risultato del provato artificio, non può risparmiarci comunque il
senso della perdita... se si naviga s'incontra la morte; si misurano i tempi della resa. Il discendere (qui invece fermato) mi ha fatto ricordare Manganelli e certi suoi passaggi in tal senso. Il possibile gioco è strategia credibile solo perché obliqua... sfuggente alla condizione prevista; dovuta al sentire  dei pezzi che compongono la nostra difesa, non definita dall'alternarsi di leggeri e pesanti, arrocchi lunghi o corti, chiusure su lato di donna o di re.
Ed ecco che l'andare "folle e fiero" diventa il susseguirsi degli ossimori, dei risultati inespressi, della "priapesca erezione", dove un flusso può forse aprirsi; dove la paronomasia insegue soluzioni condotte dopo appostamenti vissuti all'angolo dei versi e oltre gli spazi di sospesione. Particolare emozione poi comporta il cogliere aspetti quasi presi dalla nuova fisica, quando i versi dicono "la tara dell'effetto/ che si fa causa...", in qualcosa di non fugace, e il boomerang forse ritorna? O forse non è utile il suo tornare? Ovunque passi il ritorto flusso, così si accenna all'ambiziosa soglia che comporta inizio e fuga, trame inevase ed Una poesia filosofica che affronta il tema del tempo, in chiave ontologica.
Significativo il verso "il tramonto è la norma dell'alba" che mi ha riportato quasi al concetto hegeliano del saper soggiornare presso il negativo...e qui intorno si muove e accelera una verbosità di movimenti, di tempi alla fuga votati, di moti narrabili e adulti... così il riferimento all'amato Rimbaud e, forse, alla sua "Larme" che mi ha portato, in passato, ad una specifica scrittura... infine, nell'ultima parte, il testo si fa anche dialogico, interlocutorio, come non alieno dal porsi la responsabilità di un esito concettuale. Sentenze d'asindeto, sintagmi materici, covidosi allarmi contendono al tutto l'espressione di una terzina superba "in erosi miraggi lacerto tarlato/di concrezioni tritume/lubrichi residui infiocino".
Trafiggere il passo del cronologico fuggire è appunto l'esponibile progetto tendente alla nuova e altra, diversa stagione; dove un'analisi linguistica ci porta a vedere come essa non sia solo quinta ma all'origine del termine "stationem" quindi dimora e condizione... "soffrii lunga stagion ciò che più spiace" per dirla con il Tasso. Un esito davvero alto e inusuale, a conferma di cosa possa oggi esprimere una certa ricerca poetica quando diviene magistero stilistico.


IN RISPOSTA AD ANDREA ROMPIANESI - LETTERA DI ADELIO FUSÉ

 La tua lettera-recensione, nei contenuti così in sintonia con la mia poesia, mi ha profondamente toccato. Fra i diversi aspetti da te considerati, ne riprendo due in particolare - quello acustico e fonetico e quello visivo -, prima di arrivare alla questione obliquità.   
1) Aspetto "sonoro ". Mi fa particolarmente piacere che tu abbia dato spazio a questo aspetto, anzi hai iniziato proprio da qui la tua lettera. Gli elementi sonori - che tali rimangono anche nel caso di una lettura silenziosa: anche la lettura mentale, del resto, è una modalità di ascolto... - non sono un'aggiunta sovrastrutturale, men che meno degli orpelli: sono "sostanza", sono parte della struttura. Struttura che è ritmo. E' il suono della poesia che fa il ritmo. Detto altrimenti: il suono è l'ordine di misura della poesia. Versi liberi e/o forme chiuse non importa: è sempre e solo il ritmo che fa la differenza. Anzi fra i vari elementi in gioco nel testo poetico - concetti, immagini, ricerca lessicale, formale e quant'altro - il grosso del peso cade sul ritmo. In definitiva: il ritmo è il fulcro vero e anche la forza catalizzatrice della poesia. A queste considerazioni non è certo estraneo il mio interesse forte per la musica. Anche in considerazione del fatto che qui si sta parlando di poesia, alludo in particolare a come il testo poetico è stato utilizzato nella musica contemporanea. Penso, per esempio, a certi lavori di Berio, magari eseguiti da quella performer straordinaria che fu Cathy Berberian; o alla collaborazione Berio-Sanguineti (poeta per me fondamentale, da sempre). Val la pena poi ricordare che lo storico studio di musica elettronica della Rai, di cui Berio era a capo con Maderna, si chiamava Studio di fonologia... Resta il fatto, ovviamente, che siamo nel 2012, non più negli anni cinquanta/sessanta, nemmeno nei settanta, i tre decenni d'oro per le neoavanguardie. Ma alcune esperienze non solo lasciano il segno: si sviluppano.
 2) Aspetto visivo. Ho la fissa della parola visiva, ed è cosa di vecchia data. Anni fa scrivevo dei racconti, e ho scritto poi anche un romanzo, avendo come punto fermo quello di una scrittura visiva (aggiungo, come chiarimento autobiografico, che Robbe-Grillet e altri esponenti o seguaci dell'écol du regard hanno avuto non poca importanza fra le mie letture giovanili). Descrivevo, e con una scrittura essenziale, situazioni bloccate, da fermo immagine. Volendo, era una specie di navigazione interrotta o sospesa... (Guarda un po' come tutto, sorprendentemente, "torna; o almeno a volte. -, ) La parola visiva, per come la intendo, deve saper tagliare con l'accetta ciò che descrive, definirlo entro confini certi, delimitarlo in modo netto e preciso. Che in una stessa poesia vi siano poi più episodi non importa; importa che sia ben circoscritti. Eppure il movimento ha la meglio. Ogni parte, per quanto abbia una marcata individualità, si colloca dentro a un unico fluire. Non a caso le mie poesie non hanno titoli e solamente lettere minuscole come attacco: singoli episodi a sé, d'accordo, ma nel continuum che va da libro a libro. Comunque non mancano influssi propri della poesia visiva in senso stretto, o di certa arte concettuale imparentata con questo tipo di esperienza (detto per inciso: non considero simili esperienze "datate"; semmai "storielle", e alla storia si attinge sempre...). Va da sé, poi, che qualunque testo poetico, "sperimentale" o di nessuna innovazione che sia, è anche da vedere; sappiamo bene quanto sia importante la dislocazione sulla pagina di singole parole. Vuoi per esigenze fonico-ritmiche, vuoi per dare rilievo - isolandoli - ad alcuni concetti o ad alcune immagini". In poesia il confine fra testuale e visivo è alquanto labile. Per quanto mi riguarda di fronte a un testo poetico assecondo volentieri il piacere di guardare. Anche questo è un atteggiamento che viene da lontano. Da ragazzo, per esempio, leggevo Laborintus, non capivo granché ma stranamente ero a mio agio. Quando non leggevo, guardavo le pagine affascinato. Sono nate cosi le mie prime prove di scrittura: non solo leggendo i testi ma osservandoli.   
3) Obliquità. La poesia è- per sua natura obliqua, mentre la scrittura in prosa è frontale. Chiaro: si tratta di una semplificazione (abbiamo scritture in prosa che possono essere trasversali e scritture poetiche cosi frontali da essere piatte), ma serve per marcare una differenza di approccio alle cose. L'obliquità presuppone punti di osservazione inconsueti. Ed ecco che questo sguardo sciaguratamente obliquo produce degli slittamenti di senso. Sono proprio loro, gli slittamenti di senso, che mettono in difficoltà i lettori di poesia. Eppure si ha il sospetto - io almeno ce l'ho, ed è più di un sospetto... – che i lettori quelle difficoltà se le vadano a cercare. La maggior parte dei lettori legge poesia nello stesso modo in cui legge un romanzo (o una articolo di giornale, o un saggio). Pratica insomma una lettura frontale. Per questo i lettori entrano in collisione con il testo poetico, oppure alla collisione nemmeno arrivano, in quanto vengono respinti prima. Basterebbe mantenersi più liberi, lasciar fluttuare le suggestioni che il testo contiene, accantonare la pretesa di comprenderlo per filo e segno, ma, soprattutto, non pretendere un unico senso cui aggrapparsi. Perché cercare un unico senso? Se un testo poetico è oscuro, la ricerca di un unico senso lo renderà ancora più oscuro e impenetrabile... Di recente parlavo con un amico compositore della risonanza come di quel "qualcosa" che più accomuna musica e poesia - risonanza intesa, in questo caso, non come fenomeno acustico, ma come un sentire condiviso che si innesca all'ascolto di una musica o alla lettura- ascolto di una poesia. Detto altrimenti: risonanza come un avvertire altri significati dietro quello che si ascolta o legge, ma in una forma ancora indeterminata. Tutto questo fa pensare a qualcosa di mistico ed evanescente? Mistico, forse, e personalmente non ne sono dispiaciuto, anzi; evanescente, non credo, dato che in primo piano vengono posti la musica e il testo nella loro tangibile presenza e viene dato risalto a esperienze concrete come l'ascolto e la lettura. Se all'ascolto si sovrappone, per esempio, la convinzione che quella musica non fa per me, smetto all'istante di ascoltare. Allo stesso modo, se mi accosto a un testo poetico dando per scontato che non arriverò a capirlo, non solo non lo capirò, ma nemmeno lo leggerò e nemmeno ne trarrò uno straccio di piacere. Il primo serio problema per la poesia temo sia proprio questo: il pregiudizio.


Adelio Fusé "L'astrazione non è la mia passione principale" (Piero Manni Editori, 2018)
 
L’immagine di copertina apre su un   orizzonte di grandi spazi. E’ la Meseta spagnola dove ad incontrarsi in modo   imprevisto sono una giovane popstar americana e un maturo fotografo italiano.   Da qui prende l’avvio il testo di Adelio Fusé “L’astrazione non è la mia   passione principale”. Fusé, tra i più originali e linguisticamente raffinati   poeti italiani contemporanei, con all’attivo cinque libri di poesia, gioca la   carta narrativa. O, meglio, l’apertura è così specificamente definibile in   uno spunto portato allo sviluppo della scrittura costituita da una prosa   “tradizionalmente” narrante. Ma ben presto, a parere di chi scrive questa   nota, si coglie una intenzione che traspare dalle pagine a flusso: riflettere   sugli stati d’animo che determinano, accompagnano e decidono le sorti della   creatività in quanto tale; qui specificamente rappresentata dai percorsi   nella musica e nella fotografia. L’accorpamento della trattazione testuale in   forma esplicativa s’intreccia con la necessità dialogica e distende una   possibile attrazione seduttrice che, nel confronto tra la giovane figura   femminile apparentemente in fuga dalla sua popolarità e la personalità   maschile e più matura forse in attesa di accogliere una pausa esistenziale,   fa emergere tutti gli spunti intertestuali che costituiscono il viaggio   intellettuale nelle figure artistiche, quando compongono il mosaico policromo   delle nostre stagioni più emozionanti e vitali. L’operazione letteraria   dell’autore si presenta non priva di rischi ed ardua nella difficoltà di   mantenere una proporzione convincente tra la peculiarità cromatica dei due   protagonisti e la visibile intenzione d’innescare una valenza riflessiva che   sia traccia di una prosa “solidificata” degli schierati e numerosi   riferimenti colti ma da progetto innestati in una opzione anche icastica.   Concreto e astratto raggiunti attraverso la fisicità e conseguente oltrepasso   del dato immanente, cercando una tensione possibile nella predisposizione   allo svelarsi delle due figure rappresentate da Emmeline e Rino. Una fatalità   d’incontro davvero propizia, non certo così comune o ripetibile. Si coglie   sempre l’intima necessità di approfondire, da parte dell’autore, i meccanismi   della ricezione creativa e la domanda esplicita che provoca la sensibilità   estrema delle rivelazioni estetiche più acute e viscerali. La scommessa,   quindi, è nel tentativo di concretizzare un equilibrio possibile tra una   narrativa di trama e una prosa di riflessione. E intanto, nel continuo   flusso, si succedono luoghi e percorsi, desideri e sconfitte, ma più di tutto   il bisogno di lasciare una traccia, mascherato da una volontà di   annullamento. In verità il ritmo costante del rapporto tra i due personaggi   sembra più un reale monologo di due lati di una personalità in progressivo   moto interiore verso un’ansia di significati troppo spesso sfuggenti che   contendono all’osservazione il grado minimo della mancanza. La paura di   Emmeline di essere identificata come Sylvianne Loy, la famosa popstar, rivela   in fondo il bisogno di esserlo, una sorta di condizione patologica; la   ricerca ineludibile di un riconoscimento che il futile “clic” di un fotografo   può concedere alle cose e agli eventi della vita. Tutto è confessione   inarrestabile, complicità insinuante, sfida alla neutralità dei presupposti.   La scrittura si mantiene regolare, intenzionata a dire nella formula più   leggibile lo spessore del contenuto in una dizione che riecheggia l’ossessivo   desiderio di riconoscibilità indelebile quale ambizione atavica e incombente.

Adelio Fusé “Tempo ventriloquo” (Book Editore, 2019)  
 
Il “tu” a cui si rivolge il poeta è un Doppio anche critico, un “detective di nomadismi”, nel continuo andare attraverso l’espressione canterina di un tempo in duplice accezione: tempo universale e tempo individuale. Quasi una presocratica necessità di conciliare ragione ed esperienza dopo l’ancoraggio eleatico all’essere. Ma c’è anche tutto il vissuto e il pensato che antepone al gesto la responsabilità di una scelta. “Mi uso dunque esisto:/ e consento ad altri l’uso/ voi compresi”. dice Adelio Fusé in questo suo sempre coinvolgente esito poetico dal titolo “Tempo ventriloquo”. Nel passo sicuro di differenti combinazioni strofiche si amalgama l’evolvente richiamo alla cedevole penalità attesa e, nello stesso tempo, osservata come dicibile, narrabile dialogo tra l’affermazione  in evento e l’inestricabile suono delle sillabe congedate. Fusè sollecita il verso, in questa occasione, verso un più aperto intento comunicativo, nell’urgenza di allontanarsi dal quantificabile in costruzione assidua ma divelta dalla preoccupazione semantica. Il tempo che concede il tu proponibile riabilita avventure solo apparentemente nugaci, impone gravido l’utilità dialettica delle tesi. Rari ritorni fonetici in assenza d’insistenza rivelano accorti e assaporanti quasi un pullulare di emersi tratteggi, l’impatto della vita e il perdurare paziente nella superficie. E davvero Fusé insegue, in questo testo, il suono notturno di contemporanee sirene inavvistabili; l’emotiva domanda che reinterpreta sensualmente l’empatia travolta dei desideri, lo scorrimento che non è misura ma stato di veglia (e mi ricollego al precedente titolo poetico dell’autore “La veglia del sonnambulo”). Come allora ondeggiare sui detriti e le insidie, nella testimonianza dei versi...”si è mai là dove si vorrebbe/ soprattutto nei giorni di pioggia/ quella sghemba e sottile/ intermittente con la battente”; oltre l’apertura verso sviluppi inattesi e indocili. “Diremo più tardi quello che deve essere detto”, scriveva Franco Fortini in “Paesaggio con serpente”, “Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,/ i lampi della magnolia”; e il guardare di Fusé è un imprimersi le sequenze, alla cadenza di un tempo musicale e mistico. Il ritmo accondiscende a strutture eclatanti di esiti linguisticamente felici: “la pioggia s’impioggia s’impiovasca/ ma questa è pioggerella/ non l’acquazzonesco”, ed allora coniuga la strofa nella sua collocazione visuale il passo desto e deciso della ricerca consapevole e critica. C’è una costante necessità di domande urbane, empatici silenzi, tempi ricorrenti ma impalpabili; la soglia invita ad un passo arduo, spesso incerto, che obbliga ad un quotidiano, minimo coraggio. La stessa implorazione, la sua possibilità, è già determinato sollievo, mobilità interpretabile nelle cromie del flusso quale il verso lungo: “fino al mare porto arso di un salpare al plurale”. Sembra quasi un desiderio d’incontri imprevisti capaci di superare i limiti del definibile e dell’imponibile (tema toccato da Fusé nel suo volume in prosa “L’astrazione non è la mia passione principale”); un senso di coltivato smarrimento in potenzialità di stimoli eversivi. Potente l’immagine della cenere a testimonianza di un respiro dall’individuale all’universale, nella traduzione di un ben altro impulso rispetto a quello di un semplice calcolo temporale asettico. Ci appare, quindi, un Adelio Fusé in viaggio, desideroso di conciliare gli estremi del presente con le propaggini dell’infinito, rimarcando una saggezza ironica: “se ti affretti all’osteria sul canale/ avremo un giro di bicchieri”.

Adelio Fusé ”Le direzioni dell’attesa”  (Manni Editori, 2020)   
“Fino a prova contraria, un profumo non può modificare un aspetto, tuttavia può dislocare altrove”. Luoghi, dunque, in stati che sono dell’animo come una temperatura misurabile per gradi, riflessi, estensioni icastiche. Seduzioni espresse da Adelio Fusé nel suo “Le direzioni dell’attesa”, testo di narrativa viandante che mette in scena, in una formula cara all’autore, due figure giovanili, una maschile e una femminile, Walter potenziale scrittore e Alina attrice imprevedibile, che mettono in atto una vasta danza di movimenti caratterizzati dal continuo perdersi e ritrovarsi nell’arco temporale di due decenni e in luoghi lontani tra loro che assumono i contorni della rivelazione. Chi scrive questa nota sente una particolare familiarità autoriale con la tematica specifica espressa dal rapporto con i luoghi, dal tema del viaggio come ricerca di significati. Nel passaggio dalla terza persona alla prima, l’overture è su Parigi; la Ville Lumière acconsente ad ospitare la passione fisica che coinvolge occasionalmente i due profili nella formula di un ancoraggio teso a restituire il credito mancato. E’ percepibile l’azione dell’autore che dispone sulla pagina la traccia per compensare l’estenuante disillusione degli attesi accadimenti che solo nella proiezione e nella trasfigurazione delle cose possono assimilare e poi filtrare le cedevoli attenuanti della corrosione artistica. Il vissuto è già troppo orientato se non si compie quel prodigio d’intervallo che rinomina le cose; quasi le salva in una rivisitazione esegetica, sempre ardua quando il proposito narrativo intende farsi conforto alla dinamica sofferta dei dissidi. Non a caso la prima parentesi parigina si conclude nella solitaria presenza del protagonista che assorbe la volontaria sparizione della figura femminile. L’assenza è tema di prova del processo estensivo adottato dalla prosa di Fusé che intende avvalersi di una misurazione costante, di modalità lineari nella conferma forse voluta di cenni allusivi alla prevedibilità compatibile con una tradizionale strategia espressiva. Nella scrittura dell’autore la ricerca dell’altro è sempre ricerca di sé, non nel senso solipsistico del termine ma nella necessità di evolvere verso una comprensione che solo se avviata può farsi diradamento atto a far percepire gli impulsi più profondi nella loro autenticità. L’effettiva incapacità di concretizzare la creazione letteraria porta Walter, il protagonista maschile, ad una sorta di deriva prossima al vagabondaggio, alla fuga; non un desiderio di distruggersi ma di perdersi, forse per poi essere ritrovato, in qualche modo. Così, dopo anni attraverso l’Europa, avviene infatti nella ricomparsa improvvisa di Alina. I nuovi incontri riaccendono una passione sostanzialmente anarchica e infantile; quasi colpi di scena di un teatro instabile, incapace di determinare fondamenta. E proprio così si avvicendano gli episodi della vita teatrale a Edimburgo o la nuova sosta di relazione a Lisbona. Sul piano stilistico, tanto è articolata, preziosa e complessa la poesia di Fusé quanto è assolutamente immediata la sua prosa, totalmente narrativa. Non sussiste però un’esigenza di trama propriamente detta; l’obiettivo è individuato nel complesso tentativo di far emergere dai luoghi effetti di riflessione. Ma qui sembra che i luoghi abbiano, in realtà, più una valenza da sfondo scenico. Forse tra le righe prevale il desiderio di quell’auspicato incontro mai del tutto raggiunto, il bisogno di una stabilità emotiva difficilmente attuabile. La necessità esplicativa porta quindi a moltiplicare il succedersi delle pagine, documentando l’estensione dicibile nel proposito comunicante che non esclude anche tratti di rimando a considerazioni civili. Lungo il percorso, la scrittura tende a concedersi momenti maggiormente focalizzati sulle distinzioni quando l’osservazione intercetta “le progressioni della luce”, metafora di aspettative, come avviene nel passaggio del protagonista per le città del Marocco. Il ripetuto perdersi dei personaggi compone lo spartito dei rimandi e le attese conseguenti premiate dal destino. Nuovi intermezzi si determinano anche in ulteriori luoghi d’Europa, come una parentesi di relazione con altra donna a Berlino, fino all’ultima tappa narrata che si distende nel sole della Grecia e incontra il mare dell’isola di Nìsyros. E lì, tra una luce intensa e grappoli di nuvole, fra un cielo simile a un vigneto e un accapigliarsi di onde, ricompare Alina e nuovamente si riavvia una danza di sguardi, di membra arrese ai venti. Adelio Fusé lascia scorrere la sua narrazione nella consapevolezza di quanto siano necessarie le molteplici direzioni di una qualunque intima attesa.
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