alberto mori
Alberto Mori "Direzioni" (Edizioni del Verri,2017)
Alberto Mori è poeta, performer, artista che ricerca una integrazione delle arti, coniugando parola ed elemento grafico/visivo. In questo suo testo “Direzioni”, si fa “percorrente” sulla strada, “riproduttore” di un’immagine, “performante” nella carne, “viandante” in migrazione. Assume il ruolo della possibilità dicibile attraverso un passo sicuro costituito da poesie in brevi strofe che accorpano in una solidità nominativa le alternative concesse. Pertugi attraverso gli elementi che disegnano il profilo urbano di un postmoderno riprodotto e interpretato nel gesto direzionale. Le artificiali segnalazioni luminose sono allitteranti riferimenti di una pervasiva estensione di spazi da essenzializzare...”dietro la strada continua nella nebbia immota/ indefinita fino al dissesto d’asfalto”; sembra quasi che il fulcro della abitabilità s’innesti in una temporalità sospesa richiedente l’arbitrio della ridefinizione, dell’indagine inesausta. L’immagine è poi concessione di miraggio urbano, setaccio di luce, “poco prima del fuoco di rugiade”, dissolvenze che rivelano impreviste mansioni di mutamenti temporali e spaziali. Inoltre è il corpo che si disegna in parti e membra trasformate in possibili percorsi a incisione, nelle ferite riportate lungo il tragitto dei giorni; segnali di una disputa illune dove le coordinate dei sensi attribuiscono all’osservazione il compito includente le specifiche determinazioni, oltre la pena, prima del desiderio: “Il corpo sente tacere carne all’aria/ migra solo dai battiti uditi”. L’attenzione è concentrata sulle minimali consistenze ontologiche riportate alla loro intensa funzionalità; identificate quali meccanismi tangibili e interpretabili nella loro contingenza. Ma se è vero che, secondo chi scrive questa nota, ciò che è contingente in quanto tale necessita di qualcosa di necessario che ne sia il suo principio di ragione, ecco che, pur con altra via, Alberto Mori giunge, nell’ultima parte del suo libro, a svelare una natura inerente alla condizione dell’uomo e, in particolare, dell’uomo che vive la difficoltà, la lacerazione dello sradicamento. Un tema di evidente attualità che coinvolge il poeta nel suo dire, quando “Il punto umano naviga sulla barca/ L’arca inseccata e vuota/ La sponda sottile fra la pelle e il sangue”. Qui il poetare si fa intervallo d’incisione fra richiami ad espressioni che evocano sospensioni, monologhi essenziali, domande, ed anche un principio che sia compartecipazione, mentre “La notte scrive/ Risale il dorso”. Ma tutta questa attenzione alla drammaticità degli eventi è resa sempre attraverso la fisicità degli oggetti che abitano lo spazio della visibilità e lo rappresentano
ALBERTO MORI - QUASI PARTITA (FARA EDITORE, 2017)
Alberto Mori in un suo testo di poesia del 2010, “Performate”, aveva sviluppato una particolare interpretazione del gesto fisico, della corporeità creativa. Oggi, questa espressione si decide per un’applicazione tangibile in “Quasi partita”, la più recente novità poetica dell’autore, dove il gesto si identifica, apparentemente, con una teatralità rappresentata da una “quasi”, appunto, partita di tennis. La pagina si fa campo di gioco ma, in realtà, spinge l’osservatore/ lettore a ben altra indagine. L’occhio osserva con pietà e riconoscenza, citando Camus, dove l’esistenza è segno grafico che si ritraduce in voce. L’elasticità è sinuosa ipotesi di ampliamento sensoriale, come il destino quotidiano che non tarda a deviare dal nostro progetto. Obliquo diviene l’accorto accorrere delle visite accelerate e deterse. C’è forte un sentimento di liberare i confini in modo netto e inesorabile, senza ignorare il fragile indizio di ricerca che si contiene, smarrito. I componimenti, spesso di quattro o cinque versi, inducono a percepire, nel timbro dei colpi inflitti dalla vita, sudore frutto dello sforzo battente; così come le parabole disegnate nell’aria ricaduta divengono schemi analitici di geometrie inconfessate. Virgulti taumaturgici di esplicate sinestesie ove l’incrocio delle traiettorie diviene poiesi, nella lunghezza imprevista di un invio imprendibile. L’immagine conduce al ritratto della vita stessa che implica l’accettazione dei confini entro i quali agire, cogliere, pensare, amare. Il movimento vince la sua sfida inesausta; condensa nei segni il punto/ regola della trattazione imminente. Non è il gioco ma “si” è in gioco, quotidianamente, applicando allo spazio una “strategia naturale”, sempre dal fondo delle nostre inquietudini. “Al momento del fato/... la velocità slitta”, mentre “la pausa vola via” come la sussistente iterazione concordata dalle regole dell’inizio. Certo, nella sfida esistenziale raffigurata nella metafora tennistica, Alberto Mori ci riconsegna l’emozione di una sfida performativa “dove impatti assordati/ raddoppiano e muoiono attutiti”.
LETTERA PER ALBERTO MORI "ESECUZIONI" (FARA EDITORE,2013) E. 11,00
Caro Alberto, ti ringrazio molto per le tue “Esecuzioni” che ho subito letto (o ascoltato). Nella certezza di aver trovato “un angolino tranquillo in cui parlare”, per dirla con John Cage, ho qui avuto il sentire di come la poesia sia sostanzialmente, e quasi sempre, la musica delle parole. E qui volutamente mi allontano (mentre la luce rossastra di questo angolo accoglie) dalla prevedibile idea del mettere in sonorità attraverso la voce i versi. Mi allontano, per ora, dall’opzione di esecuzione orale per avvicinarmi invece proprio alla pagina, alla pista libera e bianca, che viene abitata dalle parole, dai sintagmi, dai versi. L’alternarsi dei battiti è condensato nel corposo moto visivo delle sillabe (ecco…si percepisce un primo suono diffuso, l’avvio delle note in questa serata); tendenza a vedere “derma ventoso”, “discese tonali”, “coro ad accoro”, e davvero ogni nostro racconto si fa pausa e intervallo alla musica delle parole, al loro suono che abita l’arcaica “secuzione”, il modo dell’eseguire, l’atto e l’effetto rapido, il susseguirsi dei toni e, di conseguenza, la realizzazione di un proposito (ci portano da bere intanto, quasi con passo ritmico, e un lieve suono di chitarra). Poi il verso e il suono stesso si fanno preziosi quando un “romorio ronza irideo/nel sommesso del notturno”. Non so se, allora, donne ci attenderanno per una danza accennata, oppure insistente (non frenetica)… un vago umore umbratile potrebbe cogliersi in questo effetto che sa di seduzione, di qualcosa di concluso e di altro votato all’inizio. Ma niente mai finisce od inizia davvero… “il tinnito vuoto esce sintetizzato“… si concede il dono dell’inaspettato “madrigale vespertino” o l’insostenibile richiamo “al sole del sitar”. Potremo forse ritrovarci sotto la pioggia che tambureggia, quando essa cadrà, nel suo rumore costante, e sarà una sosta tra fisarmoniche e clarini… (ora le luci soffuse hanno cambiato colore…); s’imporrà una penombra dove le danze sono anche i singoli passi dei versi in scala, brevi, a tenuta di respiro e oscillazione. Le annotazioni numeriche in calce, ricordano tempi, ore e minuti, a definire la certezza di un evento talmente percepito dalla nostra attenzione, da non essere che apparenza di un ritorno. Però il libro se è anche rifugio lo è solo in quanto trincea dove la poesia combatte la sua battaglia decisiva… i versi dallo spazio ottico entrano come suoni nell’udito di chi legge e quasi ripete ad alta voce… l’incisione è avvenuta e consente un susseguirsi ritmico inarrestabile, oltre le forme e i confini consueti; verso tappeti luminosi, ma anche simulacri vuoti. Sequenze allora, a confronto con essenziali sintagmi e durate inavvertite, poiché molto si deturpa nel contemporaneo, ma molto altro si trasforma e contende al silenzio le iterazioni fosforescenti. La musicalità (che ora sta pian piano mutando) sfocia quasi all’esterno, da circuiti idraulici eroganti… si dilata ed estende, rimbalza, muove timbrica e riparte ancata… i pixel sono lampi che denotano la notte abitata dalla sonorità,dal dialettico, quasi atemporale scenario di un interno di caffè con le pareti rosse accese (a ricordare i muri di Van Gogh), e qualcosa di alchemico e profondo che porta la poesia, questa poesia, a incidere profondamente nella nostra potenzialità d’ascolto; a farci sensibili recettori della musica delle parole.
METEO TEMPI DI ALBERTO MORI (Fara, 2014)
Sappiamo quanto influisca il clima sulla nostra sparuta ansia del quotidiano. La reiterata, ipocondriaca sorte che attribuisce alle variazioni meteorologiche i destini delle nostre attese. Oggi è possibile accompagnarci ad un qualcosa capace di consolarci... è un libro accattivante di Alberto Mori dal titolo "Meteo Tempi" (Fara, 2014). E già l'epigrafe dai sonetti di Shakespeare, citando "l'estate prima d'aver stillato la tua essenza", lascia intendere un segno, quello delle stagioni (una sezione del testo di cui diremo in seguito), non solo incisivamente evidenziabile ma perfino topico. Il sensitivo cogliere il fradicio, l'umidore, il rasciugo emette l'alito del versificare tangibile e mosso dall'intenzione di una ipersensibilità che premia ogni monade (ogni anima) nell'intesa e nella concezione dinamica. Sinestesie a lato indirette e velate, compiutamente oscurate dalla proposta che intercede attraverso strumenti non umani ma riciclati e ridistribuiti nell'approccio nomade. Le gocce sono evidenze sceniche, liminari conduzioni alla trasformazione dei passaggi, sbalzi e mutazioni reattive al nostro coattivo scendere e salire dai gradini della danza forzata che apre sipari notturni e fluidi. Il tempo è voltura, fiato, tuono, brezza, luna; alfabeti d'esilio o verbo dei silenzi, per citare Francesco Marotta. L'annuncio è invece grafico, algoritmo, simbolo, suono bianco (buio bianco...per riferirsi ad un titolo di Massimo Scrignòli). E ancora pressione, morsura, brivido, dilatazione, mappa. Punti di un riferimento fermato nell'assalto dei particolari che disegnano gli schemi risolti, consegnati al progetto di una programmabilità calcolata. Dove il tratto compiuto è quasi piano cartesiano, equivoco e contrario alla univocità del verso. Poi, come dicevamo, ecco che il ritmo giunge al suo alto grado in uno dei momenti più felici di tutta la produzione di Mori. Nella sezione "stagioni" le poesie si fanno più lunghe e complesse, si compattano maggiormente i versi tra loro, riducendosi gli spazi d'interlinea; la solidità corposa arriva anche a misurarsi con lunghezze inusuali di strofe... la visualizzazione concepisce fasi descrittive che "sfrecciano con piega inerziale davanti ai rampicanti"; c'è vocazione narrativa nell'apertura alla successione e alla percorribilità..."sempre caldo a Nairobi", nella nota civile, nelle configurazioni verso "slanci spiralici". Poi, certo, le "zone" sono urbane, le "visioni" pittoriche... ma lo zefiro sfugge, rapidissimo, perché tutto è già stato detto; la manutenzione è ipotesi dove il senso opprimente dell'attualità lascia inespresse le domande croniche. Essere e Tempo? O piuttosto e più esattamente Essere è Tempo?
Alberto
Mori “Minimi Vitali” (Fara Editore, 2018)
“Nei vetri ripuliti dallo straccio/
scorrono scenari sovraimpressi”. Il distico rivela un passaggio, accenna un’eco
d’evento, un’attenzione non passiva in cui siglare l’esito dell’approccio che
toglie residui indesiderati e permette lo scorrimento di un flusso aperto al
progetto. E’ “Minimi Vitali”, esito poetico di Alberto Mori, autore, performer
e artista da lungo tempo attivo nella ricerca di una interazione fra i
linguaggi; dalla poesia sonora a quella visiva, dall’installazione al video.
Qui la trasparenza veicola contributi che compongono un insieme di parti
sostenute da suoni e gesti, movimenti (forse mutamenti), ombre e luci, persone.
La logica definisce mereologia quella disciplina che studia il rapporto
dell’insieme con le parti, quando in gioco è il senso dell’identità. Ma qui,
l’operare di Mori si concentra sul singolo fatto che accade; sul come
l’accadimento stesso sia applicazione d’esegesi quotidiana e minima. Sembra che
i sintagmi siano frutti ritmici colti dall’autore in perenne ascolto e osservazione
viandante. Ci sono sedimenti di urbanità (tema fondamentale per Mori che ci
riporta ad un suo testo pubblicato nel 2001, “Urbanità” appunto, evidenziato
dalle erranze segnaletiche) dove le applicabili attenzioni sensoriali divengono
testimoni di un processo che unisce spontaneità e artificio. L’atto umanizza
poiché registra; raccogliendo salva, oltre le inagibili provvisorietà delle
incomprensioni. Il minimo comune determina la traccia riconoscibile e, per lo
più, percorribile “Del gradino e della strada/ Pausa ed affaccio/
Nell’affluenza trafficata/ Trascelta per termine d’attesa”. I gesti poi sono
quelli che concedono geometrie esemplari, riconoscibili referenti geografici:
“Big Ben controcielo/ La tracolla sospende London Bridge”. Alberto Mori disegna
profili che contengono l’essenziale gravità densa di un minimo vitale idoneo ad
“evoluzionare” gli spunti verso figurazioni future colte nel loro momento
aurorale. Dopo, l’imprevisto si farà destino, come ricezione civile e partecipe
“verso notte ancora indetta”, senza escludere l’attenzione ai marginali e il
miracolo delle variabili che disegnano le interpretazioni abilitate a vocare.