camillo pennati
Camillo Pennati "All'est di una visione contemplata" (Nino Aragno Editore, 2017)
Contemplazione, forse? Revisione di quei tratti che compongono la solidità di versi per lo più prosastici e materici? La domanda inaugura una rilettura d’autore alle fonti di un monitorato studio. L’attenzione che richiede la lettura della poesia di Camillo Pennati, tra i nomi più originali della generazione nata nei primi anni Trenta del Novecento, scomparso nel 2016, appartato costruttore d’impianti testuali “in accumulo” e non in levare, referente di Calvino, redattore di anglistica, nonché vivace commentatore nelle precisazioni esegetiche (ricordo anche alcune nostre passate dispute epistolari sull’attribuzione di consistenze manieristiche), è comunque primaria; così come è necessario porsi di fronte al titolo postumo “All’est di una visione contemplata”, dove la parola si fa luogo nella natura della sua vocazione fonetica, in una collaborativa azione di vista e udito. Lo spunto arriva da un lungo soggiorno realizzato dal poeta sull’isola di Phuket, la maggiore della Thailandia. E l’impatto è con l’acqua, con il suono delle onde, nella descrizione levigata dove la tessitura prosastica compone prima disarmonie nella necessità di lambire le asperità stesse delle cose di natura in esistenza, per poi cedere ad alcune caute armonie di rima, nella sussultante “corpatura” materiosa degli oggetti nominabili in dilatata geometria. La determinazione volutamente monotona sulla unicità tematica rivela la sua debolezza gioiosa: “come le onde non sono spunto da poter descriverne”, e proprio l’opposta applicazione sfida la unilaterale porzione per moltiplicare all’infinito, almeno in potenza, le “foniche incisioni o trascrizioni” che si fanno molteplici, interpretative, simulate, diventano membra o, meglio, innesti di evenienze fisiche nel divenire terrestre, attraverso l’intenzione preziosa della messa a fuoco ottica di quegli istanti contingenti che costituiscono la nostra certezza osservativa. Un procedere in sinestesie evocante altre rive, quali quelle esuberanti dei “cavalli di luna e di vulcani” scritte da Quasimodo. Ma qui si crea una netta distanza stilistica nel momento in cui il verso di Pennati intende salvare una parola che si fa luogo attraverso un’impalcatura votata alla corposità solida e anche rigida, terrosa, che include gli straripamenti dell’elemento acquoso, del volume del vento, in un decifrarsi di moti che esaltano la fatica del macinare, l’incombere sensitivo di orli, bordi, spinte, solchi, forme, grumi. Sembra quasi che l’autore si faccia minuzioso interprete della realtà indagata, con la peculiare attenzione specifica del botanico, come quando l’attenzione all’oggetto si fa descrittiva esegesi conoscitiva, nell’esempio del banano “Lungo quel nerbo della nervatura/ Che le raccorda entrambe al centro/ Come una chiglia a solcare in resilienza”; e la visione è appunto contemplata, rivelata, poiché l’evento è già avvenuto, l’atto è ora concentrato nella disamina dei reperti divenuti elementi di studio per “oltrepassare ogni concluso raggiungimento”. Qualunque eclittica possibile è apogeo d’eco infisso nelle tracce e nelle linee apportanti volume all’edifizio mirabile, congiungendo le evidenze linguistiche in uso coniugabile ai tracciati espressivi modulati sulla formazione ad orientamento di vettore ove si determinano finezze di cesellature e levigatezze scritturali. Non a caso il “modulato silenzio” è stato titolo di una precedente opera di Pennati, proprio nella possibilità di configurare comparti d’innesto capaci di figurazioni a proporzione e a sviluppo. La procedura d’analisi è sistematica; implica una precisione osservativa persistente e prolungata, una certosina attenzione alla peculiarità delle incisioni e dei particolari. Il movimento incessante e sonoro delle onde comporta la ricezione paziente di un dinamismo in divenire problematico e corposo, attraverso un vigilare grato che rivela lo sguardo affilato dell’artista. Ci sono poi accensioni accelerate di rime compattate: “nell’assunto dell’istante e del momento/ evento susseguito dall’evento/ scandito per minuto e singolare accadimento” in una catena a riecheggio intensivo e reiterato. E’ un ridestare l’attenzione agita verso la contrazione dei sensi che raccolgono il percepire relitti e frammenti sulla battigia, testimonianza di eventi alla deriva nella complessa e, allo stesso tempo, catalogabile riconoscibilità di tracce cromatiche, senza escludere l’inestinguibile fondale di fango e la violenza impetuosa dei monsoni. Sembra di assistere ad una aristotelica definizione di materia e forma coniugata alla necessità di non ridurre ad una eccessiva sovrapposizione astratta l’esperienza sensoriale, mancandone la sostanza dell’esistere nella originalità d’ogni immanenza. Il verso lungo di Pennati, maggioritario nello sviluppo della raccolta, si sradica da una terra disegnabile con lo sforzo, in questo caso, volutamente non musicale che enumera le separabilità confinanti nel drappeggio costitutivo del dettato trasmissibile. Non mancano poi anche momenti di finezza percettiva del sensuale e versificazioni più brevi e intense, nel bisogno maturo di evidenziare e riconoscere gli elementi in una forse auspicata speranza di rintracciabile progressivo percorso “ di un blu/ che celestiale spazia l’arcata/ del suo cielo...”, come confermativa iterazione nelle veglie e nei ricorsi. Pennati non esclude neppure il dato civile nel riferimento ai tragici tumulti provocati dall’uomo nella storia, come l’accenno al disegno di una formazione a fungo che ricorda quelle devastanti di Hiroshima e Nagasaki. Il libro ci comunica, infine, tutto quel sommovimento d’impetuosa irruenza riprodotta nella consistenza dei versi a tonfi e boati “in echeggianti percussioni/ null’altro che la dissonante consistenza”, dove il particolare minimo si moltiplica in una serie d’innumerevoli riflessi senza tempo.
Andrea Rompianesi