elio tavilla
Elio Tavilla “La
gravità terrestre” (Musicaos Editore, 2020)
Nella poesia che apre la raccolta di versi
in sette sezioni “La gravità terrestre” del poeta di origine siciliana e
residente a Modena, Elio Tavilla, è già presente non solo una dichiarata
concezione che si distingue nella struttura tecnica del testo stesso, nella
compattezza di versi che concentrano una solidità espressiva di abilissima
tensione, ma anche un contenuto a traccia espositiva, aperto a intervalli dai
due punti che indicano, in corso di scrittura, il segno tangibile di una
sofferenza privata e civile dove è il settore animato del prospetto giovanile
ad essere esposto alla caduta dei progetti; “ma infine qui è il nero dominante/
il tuttobianco, tuttonero nullasembiante/ torna l’ostrica d’infanzia, schiude
bella/ l’apparenza del rossore sulle guance”. E’ una perturbante occasione
dicibile di terreni adibiti alle lotte, ostacoli e destini, intenzioni
narrative interrotte, pene mature, tempi davvero incerti che riportano ad un
bivio. E’ notte aperta anche sulle aspre condizioni che caratterizzano la
personale identità di chi accoglie gli effetti riflettenti agnizioni che non
tralasciano la ormai separatezza del luogo inglobato e trasfigurato nella sua
decadenza “anche sopra gli argini, nella fitta foresta/ delle aziende
metallurgiche addentrate/ sino quasi alla città che più non è/ periferia”. Una
parvenza d’amore deve emergere nella durezza della strada, nella inesorabilità
della notte, quando la notte è domanda, è inascoltato regesto di assidui
dintorni per lo più immediati. Sono quasi strati di esaurita tolleranza verso
il sopruso, di graduale recupero di una necessaria sensibilità civile,
attraverso lo smarrimento volontario e, allo stesso tempo, imposto dalla
distrazione contestuale di un riflesso descrittivo che insinua rimandi di rima
e assonanza irregolari e distanziati nella partitura esposta agli intrecci del
ritentare la domanda dello sguardo. Inchioda al fisso della pagina il tangibile
randagio, il vivente che conosce il rifiuto, lo sbando, la persecuzione, la
separatezza che vibra nella fissità di “un chiostro di ossa e nervi gettati/
nel pattume”. E’ qualcosa che ci può tenere legati alla terra, ad una
condizione minerale, terrestre appunto, dove la complessità delle implicazioni
distoglie dalla intransigenza del dato reiterante la dipendenza. Il dramma
anticipa eventi che riguardano la tangibile pelle degli umani, lo strazio
inascoltabile perché scartato, tra uno schermo di gomma e un fuoco nemico;
anche sognare in fondo, scrive Tavilla, è un gesto “poi/ spalanchi la marsina e
scappi”. Si approda a sonni incerti e crepuscoli avanzati, sere oggetto di tentazione,
carezze inconsolabili, avvistamento di lago. Dopo la difficoltà di scorgere le
insegne che dovrebbero interpretare il nostro passaggio, dopo le insonnie, sono
ancora figure giovanili a disegnare il possibile ulteriore destino, allora
“basterebbe/ tremare di candore e di innocenza”. Le storie di guerre e di
nemici, di sudore e sangue, di cieli incombenti e di domande, svelano la
determinazione di una sintesi che racchiude la complessità di attese rivolte a
forme altre, vie d’uscita. Ma la conclusione contenutistica di Elio Tavilla è
più amara, nella conferma di un mondo che esprime l’infamia mai cicatrizzata
nelle schiene “vergate a sangue”; in un trascorrere, insomma, in un epilogo,
visto come un meccanismo non conoscibile e contratto in una desolazione che,
per l’autore, solo il rapido passaggio testimonia.