emanuele bettini
Emanuele Bettini
“Il giorno e l’amore” (Book
Editore, 2020)
“Quando la notte si ritira,
lasciando filtrare la luce, lo sguardo cerca la dimensione del nuovo giorno e
appare l’Alba. Presso gli antichi greci si chiamava Eos...”. Con tale premessa
introduce il suo esito in poesia “Il giorno e l’amore”, Emanuele Bettini,
scrittore, traduttore, storico, non nuovo alla vicinanza tematica con spunti
riferiti alla sensibilità ricettiva verso il mito greco e gli intrecci
culturali, stimolati dalla opzione del dialogo e dalle suggestioni coerenti. E’
un rivolgersi lirico alla seconda persona singolare, ove le attese, quasi
affilate da rosee dita, coniugano silenti aspettative e travagli di inabissati
contorni. E’ corollario di un’alba simbolica che tratteggia il verticalismo dei
testi, comportando esitazioni diramate attraverso lo scalare dei pertugi e
degli anfratti offerti alla dinamica delle variazioni fonetiche e termiche;
quasi un ancoraggio disciolto nella possibilità del palpito, oltre un’ ansa ove
“la notte s’acquieta/ nel remare della mia barca” scrive Bettini, osando la
tensione della prossimità auspicata o echeggiata perché “”Il fiume ha spazzato/
la piena dei ricordi”. Si segnala, leggero, un tono di abbandono
all’inesorabile lontananza di ciò che evoca un passato remoto, per questo non
solo sostanzialmente mitizzato ma comunque esternato in un drappeggio “dove
anche il pianto/ può essere/ tempesta/ irrefrenabile/ come vento/ contro le
imposte/ chiuse dal tempo”. E il verso breve a vocazione di sintagma condiziona
le vocalità dei sentimenti espressi in una condizione metatemporale. L’avvio
indica plausibili esempi quali il volo impossibile di Icaro, la ricerca di
Ulisse o Giasone. Ancor più struggente, poi, la vicenda di Orfeo e Euridice. Il
canto poetico capace di commuovere gli dei ma non di evitare le ineluttabilità
del destino. E’ una potenza amorosa quella che il poeta evoca, portandola alla
contemplazione quotidiana dell’avvertibile sensibilità propria delle schegge di
natura estendibili ai vigori diurni e alle contemplazioni serali. Le tessiture
auspicate contendono al controllo espressivo la dinamica del percepibile
ascolto enumerato negli umori ansiosi della domanda. Croce, anima e canto,
dunque, anafora e accenni di illocutorio concentrano la trama del reiterato
accorrere a stilemi in coerenza di dettato. E’ sofferta e incessante ricerca di
altro e di oltre, di un’aura femminile che sembra rievocare certe figure muse,
angelicate, ritratte in percorsi poetici singolari quale fu, in un contesto
mitomodernista, quello di un autore come Dorian Veruda, nelle conferme al dato
ricettivo che concesse Rosita Copioli. Attenzioni quindi alle suggestioni della
mancanza, quella che incide il segno quotidiano, libera l’invocazione e la
domanda, “regala la rete dove la solitudine è furia/ che trascina la mia
passione” scrive il poeta; decide le sorti di esiti in naufragio. Allora si
affronta la difficile esperienza di saper interpretare tutto ciò che rifugge,
che alimenta le strategie di risposta al disagio, quello che si accampa, che
deturpa le possibili espressioni della nostra fuga impedita; accorpa i silenzi
estroversi alla spazialità votati, determinando l’assedio costante che cinge i
fianchi e allenta solo nell’attimo estorto della prevedibile resa, al timore
esausto accogliente quei silenzi al rompere dell’alba, come tracciato in versi
che furono di Francesco Marotta. Il sangue dirama segnali di ferite individuali
e collettive, epoche segnate dalla rigenerazione dei propositi che ostentano
consapevoli debolezze. Emanuele Bettini riconosce però il destino umanistico
del tracciato: “persino l’acqua tra le pieghe della terra/ e più simile al
volto/ che al deserto bagnato”. Un lirismo accompagna la pena del distacco
dalle cose; il dicibile evoca l’accatastato oltraggio destrutturando il
pensiero nell’opposta linearità del verso ed oltre... “c’è per tutti/ un po’ di
pietà/ se il muro divide/ l’infinito dal cielo”.