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ENRICA SALVANESCHI - SILVIO ENDRIGHI "LIBRO LINTEO - TITOLO V. MAI SEMPRE" (BOOK EDITORE, 2015)

E’ troppo ghiotta la possibilità che si presenta a chi osserva e legge, per eluderla in una composta pazienza esercitabile o spendibile in comodo apporto. Enrica Salvaneschi, coltissima appartata docente di letterature comparate, e Silvio Endrighi, “porcellino del gregge di Epicuro” non responsabilizzato da una identità anagrafica, compiono una vicenda poematica di ibridazione stilistica che contende alla disanima letteraria il tracciato più estremo della catarsi filologica. “Libro linteo” è opera nata in cinque parti e tra queste, l’ultima, titolo V “Mai Sempre”. La prosa pare divenire, nel fronteggiarsi dei nomi, una sorta di intarsio tra cammei letterari che riconducono a figurali identità e origini disegnate in spunti figurativi e pittorici che un autore come il Parmigianino, nel suo trasporre contaminazioni petrarchesche, incide nei particolari emergenti da una famosa opera incompiuta, oscuri e adamantini nello stesso tempo. Le finalità araldiche dei nomi, la loro storia e configurazione, porta a rivelare legami e appartenenze, stupefazioni e solitudini, dialogiche assimilazioni e pertugi evocabili, dove l’inventio è memoria di passati linguistici archeologicamente indagabili, ipogei visibili, per caparbia necessità. Lino, protagonista molteplice, già si rivela nelle connotazioni semantiche del suo nome, nella coincidenza con la pianta tessile al fine di rilegatura nonché lenzuolo di avvolgimento. Corposa poi la parte finale del libro “Chiarimenti” che è sviluppo integrante ed esplicativo del testo, quasi fosse commento a scritto non inesistente, come fu in un caso dell’altissimo magistero stilistico espresso da Manganelli, ma ad altra suggestione d’improprio ordine. Poiché alla semplicità dissociata di temi occorrenti agli incontri figurali, sempre tradotti in una scrittura di raffinato e raro effetto, segue una complessità di analisi ed esegesi filologica, linguistica e comparativa che affonda le sue inesauste radici ermeneutiche nell’origine indoeuropea, nei miti classici dell’universo greco (Eschilo, Pindaro), nelle emozioni provenzali e stilnovistiche, nelle ineludibili chiamate in corso d’opera di Petrarca e Leopardi, fino ad un sostanzioso approfondimento di chi rappresentò con acuta personalità il rococò tedesco, Christoph Martin Wieland. E certo non mancano di occhieggiare ulteriori figure in dialogo o in spunto, come Gadda o Landolfi. Ma tutto il “non-percorso” che si contendono gli autori, Salvaneschi ed Endrighi, quasi “stare” dialettico e amoroso in un gioco serio, come solo l’autentico sforzo ludico sa essere, è indefinibile se non ci si accosta all’opera nella considerazione del retablo che si fa mosaico a dire davvero più di quello che appare,il tutto è molto più dell’insieme delle parti, dove il segno delle identità svelate o nascoste è la perturbante e amara consapevolezza del mistero e dell’indicibile. Questo ben colto in una grazia del comporre che contempla la poiesi autoriale in una moltitudine di ricezioni creative che concedono all’umano il sigillo del sacro e cioè del separato da ciò che è vile. Ecco perché, forse, l’ossimoro del “mai sempre” diviene materializzazione intellettuale di quella zolla separata appunto, “proemio perpetuo all’enigma principe”.



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