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ferruccio giuliani

FERRUCCIO GIULIANI "FÈR RAMÈNGH" (PUNTOACAPO EDITRICE, 2016)

“Mòla ol s-ciòp e ciàpa ‘n mà ‘l vapùr,/ a ‘mpienì i paìs de nìole de carbù” dicono i versi bergamaschi di una poesia di Ferruccio Giuliani che, anche nella traduzione italiana, rendono la vivacità di un senso del moto: “Lascia il fucile e impugna il vapore/ a riempire i paesi di nuvole di carbone”. E’ un percorso intento a recuperare la sonorità dei sintagmi, quello dell’autore in “Fèr ramèngh” (“Ferro errante”) dove il treno, come il sogno del padre di guidarlo, diviene mezzo di ricerca attraverso spazi e sensazioni primarie e ataviche. Desideri che rinascono e si susseguono in movimenti e viaggi che evocano città, come Bari, Firenze, Milano, Roma, la Bergamo a cui tornare e, nello stesso tempo, salmi di pettirosso e stridii di lima, voglia di raccontare e panni stesi all’ombra. Si costruiscono sulla pagina sonetti, quadri di quartine e terzine, rime alternate a dire di una umanità in esodo perpetuo, dove si conducono speranze e illusioni, sentenze verso le quali franano le ribellioni, e le consistenze meccaniche degli elementi fissano una notte di luci elettriche che si alterna a squarci e aperture indicanti terrazze verdi, aria maremma, aromi di rosmarino, gelsomino, lavanda, uva che suda vino. Sembra di seguire la successione di stazioni che determinano luoghi geografici e stati d’animo, musiche di sagre e grappoli di onde. Si evidenzia, nello sviluppo poetico, un senso intimo della meraviglia che tende umile ad accostarsi alle possibili salvezze nascoste nelle minime cose che concedono la grazia del riconoscere, attraverso iterazioni iniziali e scansioni temporali, alla ricerca di una figura paterna che rappresenta, forse, l’identità capace di essere ancora guida ed esempio, sebbene nella memoria, in una consapevolezza antica e in un desiderio incessante che coinvolgono le tappe di un divenire immanente. Così si nominano anche gli eventi diurni e le tragedie collettive, come la strage alla stazione di Bologna. Ma è proprio il binario morto, ci dice Giuliani, che non muore mai perché “da lì si parte sempre, non si va mai oltre”. La lingua bergamasca incide dura sulla pagina l’epopea dei saluti e degli incontri; il treno è in viaggio al limitare di giudizi e destini, salite e discese, velocità e sogni, cielo e terra; “Di òlte a l’ par de èss dré a turnà ‘n dré/ ma m’ sè adòma sentàcc zò al pòst de frònt” (“Talvolta sembra di tornare indietro/ ma siamo solo seduti al posto di fronte”). Ferruccio Giuliani sa determinare sulla pagina una scrittura poetica che nasce da una lingua locale e che ben si struttura nella compattezza dei rinvii acutizzati in sonorità diffuse, tanto da risultare felicemente efficace anche nella traduzione italiana.



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