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flavio ermini

FLAVIO ERMINI "IL GIARDINO CONTESO" (MORETTI & VITALI EDITORI, 2016)

L’entrata è auspicabile in questo giardino della mente dove il tema trattato è voce primaria dell’attività speculativa. Come esprime il sottotitolo di quest’opera,  “l’essere e l’ingannevole apparire”, siamo in un piano capitale, su di una colonna portante del pensiero. Il tema dell’essere, argomento costitutivo della metafisica stessa, conduce ad una ricerca espressa nella formula letteraria di una prosa creativa con vocazione saggistica a forte definizione filosofica. Si tratta del libro “Il giardino conteso” di Flavio Ermini, poeta, critico, direttore della rivista di ricerca letteraria Anterem, tra le più prestigiose in Italia. Il senso pieno di metafisica si concetizza nella domanda fondamentale sull’essere, perché l’essere e non il nulla, rapportandosi e, in un certo senso, comprendendo l’ontologia, cioè la definizione di che cosa esiste. Da qui la possibilità d’inoltrarsi anche verso il tema arduo ma necessario dell’Ente primo o Essere assoluto, la teologia razionale. Tutto ciò riacquista pregnanza proprio perchè tale percorso permette di recuperare il senso più antico e classico della metafisica, quale era la filosofia prima di Aristotele, intesa come la ricerca delle cause prime e dei principi primi. Ermini tende a muovere i suoi passi su un altro tono e con altra accezione, tanto da sottolineare una critica alla definizione più restrittiva e ortodossa della stessa. Questo non impedisce però di rallegrarsi perché, dagli anni Duemila, assistiamo ad una rinascita dei temi propri di questa disciplina, il livello più teoretico della ricerca filosofica, anche in ambito continentale. Ciò era sempre avvenuto sul fronte anglosassone, in Gran Bretagna e Stati Uniti, attraverso i percorsi della metafisica analitica. Ma in Europa continentale e in particolar modo in Italia, certe derive di marxismo, neopositivismo, fenomenologia, nonché pensiero debole, avevano relegato ad una posizione del tutto periferica la disciplina più teoretica che veniva seguita ormai in pochissimi ambienti accademici quasi esclusivamente tomistici come l’Università Cattolica di Milano. Altra piccola oasi era stata la cattedra di teoretica dell’Università di Padova, tenuta da Marino Gentile (scomparso nei primi anni Novanta del secolo scorso) maestro di figure oggi particolarmente significative, prima fra tutte quella di Enrico Berti. Dicevamo che in questi anni si assiste ad un riattualizzarsi della teoretica grazie anche ad un proficuo incontro tra metafisica classica e analitica. Ovviamente, come accennato, il lavoro di Flavio Ermini porta ad un percorso specifico che sceglie, per questo, la forma espressiva della prosa creativa o poetica e non del trattato saggistico; quindi assistiamo all’aprirsi emblematico di una scrittura polivalente, particolarmente attenta alla poiesi linguistica, alla matrice albale e creaturale della parola e a ciò che sta prima di essa. L’accenno all’ingannevole apparire sembra collegarsi all’idea della contraddittorietà del divenire propria di Parmenide, e alla sua ripresa da parte di Emanuele Severino. Illusione del divenire, solo apparire, a cui aveva già risposto nell’antichità Aristotele dicendo che il divenire stesso potrà anche essere illusione, ma è illusione di cui facciamo esperienza ogni giorno, e quindi più credibile come reale che come illusorio. In chiave moderna potremmo oggi dire che la nostra condizione nel divenire non è contraddittoria ma problematica. Come poi non sentirsi coinvolti dall’osservazione della differenza ontologica, essere ed ente, l’uomo unico ente capace di pensare l’essere, dall’esserci di Heidegger? Il suo era in effetti un tentativo di superare l’involuzione storica di un pensiero che coincideva con l’oblio dell’essere, attraverso l’idea di essere come evento, quindi non, in realtà, la fine della metafisica ma solo di una certa metafisica. Davvero pregnante, quindi, il modo proprio di Ermini, personale e specifico, attuato attraverso l’interpretazione di una contesa tra essere e apparire; nella consapevolezza che ciò è un accorgersi di vivere, un muoversi verso l’esperienza originaria. Ma qui si parla anche di verità congiunta alla bellezza, nel cuore proprio della manifestazione quale esito di equilibrio in accezione estetica. L’estetica stessa, al di là di come la si voglia porre, acquisisce un senso peculiare, nel suo intrecciare teoria e prassi, filosofia e letteratura; ricerca di un risultato visibile sulla pagina, nella tensione allusiva e svelante di una poesia e di una prosa dove la vocazione filosofica sia voce autentica di un pensiero poetante. Ermini ci porta alla soglia liminare dell’evento, alla sua origine già gravida, agli universali prima delle cose, alla distanza del cielo e della terra, al compito dei mortali, all’apparente convivenza degli opposti. Ma il clima generale che viene evocato dall’autore sembra per lo più un paesaggio di rovine dal quale intraprendere un rischioso cammino che conduca all’intima natura dell’essere. La nascita dell’uomo è vista come inizio dell’esilio; uno sperimentare il destino degli acrobati, provare una continua, estenuante tensione verso l’arché, l’origine. Ma, a parere di chi scrive questa nota, proprio l’evocato detto heideggeriano dell’esserci per la morte non significa più la consapevolezza della nostra finitezza di mortali, quanto “significare” la morte, evento che denunciando il limite fa sì che esso non possa più essere il tutto. E’ la stessa esistenza del limite a dire che altro deve esserci oltre quello... diversamente noi non avremmo nemmeno la concezione di ciò che significa il limite stesso poiché esso sarebbe il tutto, e quindi non identificabile come limite. Ermini vuole condurci alla fonte ortiva della terra preverbale, nel cammino che diventa un viaggio doloroso verso l’origine della notte, là dove s’individua la luce dell’essere, il principio della luce. L’esistenza è vista come una dolente via crucis costellata di apparenze ove tuttavia siamo chiamati alla pratica della cura. Nel riferimento ad Heidegger, davvero l’autore sottolinea la necessità di passare dalla frequentazione degli enti alla ricerca dell’essere, perché “Troppo poco noi sappiamo dell’essere!”. Diventa esigibile la definizione della soglia, arduo il suo compito: “reggere il darsi di un passaggio e in pari tempo l’avvenire di un contrasto”. Il tono sapienziale del testo ci comunica, in una forma stilistica raffinata, che l’essere si disvela soltanto per propria iniziativa, quindi il vivente linguistico deve porsi nella condizione di accogliere, spogliandosi dall’invadenza del soggetto. L’essere è forse relazione fra guardante e guardato. Tutto questo all’interno di uno stato di profonda angoscia che ci vede in un confronto temibile con la morte e la perdita. Vive nella pagina una costellazione di citazioni, prime fra tutte quelle da Holderlin, portate all’analisi del dato, dove si possa compiere “il nostro incerto cammino” anche se, secondo chi scrive questa nota, il caos da cui si crea è in realtà proprio la libertà che, entro i limiti della configurazione psicologica, costituisce l’elemento di dignità identificante l’uomo stesso. Dice Ermini: “ Dobbiamo tornare là dove il divenire si è scollato dall’essere e ha preso a vivere sulla terra... è l’alba di un nuovo principio”. Solo che, come rifletteva Eraclito, “per gli uomini, che accada quel che vogliono non è la cosa migliore”... ed ecco che si delinea la traccia di denuncia che il libro sottende, in una energica critica nei confronti della deriva tecnologica e consumistica che produce la contemporanea alienazione autodistruttiva. La caduta è proprio nell’aver costruito una società basata esclusivamente su tecnica ed economia, disumanizzando e allontanando la domanda di senso che sola può giustificarci nella nostra identità, quella che ci parla di una scelta del vento come scelta della propria essenza. L’esperienza dell’esodo è così costitutiva della ricerca stessa. L’esito si determina nel linguaggio dell’origine, nella lingua poetica “al fine di cogliere l’autorivelazione aurorale dell’essere nella parola” affinché, come affermava Novalis, “far poesia e pensare sia una cosa sola”. A questo punto però Ermini si fa coinvolgere direttamente da una posizione storica che arriva a riprendere perfino l’auspicio di una “immaginazione al potere” dal ’68 evocata e qui fatta risorgere. L’autore giunge a scrivere: “Rendiamo possibile il matrimonio tra il terreno e il celeste; rendiamo pensabile un mondo pervaso dalla pace e dalla bellezza... dove non sia necessario vendersi a Dio per sbrigarsela bene con il futuro”...e qui sta sicuramente la divergenza di contenuto con chi scrive questo commento. L’evidenza storica stessa ci dice che proprio gli auspicabili esiti invocati, pace e bellezza, non sono raggiungibili senza l’elemento fondante di un senso; non sono concretizzabili se si è privi di un principio di ragione sufficiente che spieghi ciò che da solo non si spiega, ma che l’esigenza stessa di senso fa sì che esso sia ineludibile; ancor di più se non sorge in noi quella fides non dogmatica ma animatrice attraverso l’intesa con la ratio e capace di affidarsi al fatto che la stessa consapevolezza del problema, come spiegava Marino Gentile, ci dice che esso non può essere il tutto, ma per essere tale deve essere solo “parte” del tutto, e che altro dovrà esserci, cioè la soluzione. Nel Cristianesimo poi, in particolare nel suo cuore evangelico, si fondano gli elementi che congiungono umano e divino, immanente e trascendente, verbo e carne, proprio nella consistenza di un partecipare libero all’espressività del dire che coniuga poesia e filosofia, il sensibile e il razionale, in ciò che compie il connettere saggezza incompiuta con sapienza accogliente, attraverso il legno della croce che mette in relazione terra e cielo. Ma questo è pensiero di chi scrive la presente nota, e che sottolinea comunque la evidenziabile qualità propriamente stilistica che l’avventura poematica di Flavio Ermini in questo libro conferma e che si concentra, attraverso l’ultima parte dell’opera, in una vera e propria scrittura in versi, a riprova della possibilità praticata di una responsabilità che sia “in” una poesia capace di cessare di essere personale e in grado di diventare “essenza dell’esistenza”.


Flavio Ermini  “Edeniche” (Moretti e Vitali Editori, 2019)
E’ sapienziale il tono di Flavio Ermini in “Edeniche”; la poesia sviluppa un verso prosastico a contenuto filosofico dove si assiste ad una evocazione del “darsi iniziale” di un’età in cui il tempo riposava nell’essere. Il moto aurorale dell’esistenza richiama la nostra osservazione vigile prima della cosa, all’esatto processo di appartenenza come enti, nella consapevolezza di una separazione degli esseri dalla sostanza, verso un destino di conflitti e contrasti. Recuperare un’acquisizione perduta, dunque, s’impone come progetto ampiamente trattato nella consistenza saggistica della riflessione poetante. Ermini è autore profondo e inquieto di fronte al destino degli uomini; ha vissuto stagioni accorate di meditazione sul compito terreno dei mortali, sulla sofferta determinazione nel cogliere un tratto che auspichi consapevolezza primigenia, mutamento arcaico, forse quell’indefinito che era principio degli esseri per Anassimandro. Qualcuno potrebbe affermare giustamente che se è vero che non c’è inizio senza fine, non può nemmeno esserci allora fine senza inizio. E ben oltre andava la riflessione di Heidegger, così spesso volutamente frainteso su basi ideologiche, nel recupero di un concetto di essere collocabile all’inizio di una tradizione da reinterpretare alla luce di un esito che richiede il significato della nostra temporalità, ponendolo come irrisolto quesito. Ma, continuava Heidegger, proprio “l’indefinibilità dell’essere non esenta dalla domanda circa il suo senso, al contrario la provoca”. Da qui, la necessità ribadita, dunque, di un significato. Si parla quindi di principio, dolore, sostanza, essere per la morte ma, contemporaneamente, in lineare continuità, di sogno e azzurrità, di stelle e ultima terra, di luce originaria, del divino. Ermini ci presenta una forma di cacciata dall’Eden, di una condanna all’esilio. In realtà il tema biblico, nella sua accezione più esegetica che si fonda sui generi letterari, vede la libera scelta dell’uomo che proprio della sua libertà si fa vanto, disconoscendo un rapporto di filiazione in una volontaria espressione di superbia. Voler contare solo sui mezzi umani mette a confronto immediato con le capacità ma anche con i limiti. Ci sono accenni tra i versi che evocano il movimento e mutamento di afflato inesorabilmente tomistico, così come la suggestione di una “trasformatio mundi”. Il verso lungo pianifica l’attribuzione dei passaggi che, implacabili, determinano l’assuefazione ad una pratica di lettura dilatata alla vocazione assertiva. Una dizione linguisticamente lenitiva, quasi progettata su moduli di respirazione interiore, nella peculiarità conoscitiva rivolta all’origine, apre aree di approfondimento ancorato al nostro domandare. “Sotto uno spazio definito da stelle inerti e tenebre/ prelude all’incontro con la morte l’atto di cadere”, e proprio la filosofia, sosteneva Emanuele Severino, nasce come risposta di fronte alla domanda che la morte stessa ci suscita. Emerge, ad un certo punto, il tema specifico della discordia tra gli umani; quella radicale lotta che conduce al contrasto estremo, alla guerra. Si apre uno scenario di rovine da terra desolata all’interno del quale il poeta disegna le indicative configurazioni del principio. C’è una ricerca del sentire che determina acquisizione di fratture, intenti di progetto. Scriveva Schelling: “Il limite che Fichte poneva fuori dell’Io, fu posto così da me nell’Io stesso, e il processo divenne un processo puramente immanente, nel quale l’Io si occupa solamente di se stesso, della contraddizione sua propria, posta in lui stesso, di essere cioè insieme soggetto e oggetto, finito come coscienza e infinito in quanto Principio produttore dell’universo”. E, al di là del persistente riflettere, adombra la prospettiva dell’esilio, la sua determinata osservanza; infatti “ha voci ovunque il cantiere dell’uomo/ nel richiamare alla mente la casa natale/ che spinge l’esule a uno stato di sconforto/ in quanto elemento destinato alla fine”. Precarietà e senso del dissolvimento incombono nella poesia di Ermini, ma proprio questa identità che si pone di fronte come destino fa sì che, paradossalmente, il destino stesso acquisisca il suo più profondo significato ontologico.
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