gian piero bona
GIAN PIERO BONA "LE LONTANANZE" (NINO ARAGNO EDITORE, 2015)
Ombra e barca, cose e arte... incipit di citazioni a introdurre un’accumulazione di sensazioni e riflessioni poste a distanze, come a ricezioni. In vocazione di ditirambi i testi conducono all’ineluttabilità del destino, coniugandosi con spoglie e rami, trifogli e grilli. Nella lirica classica il ditirambo si costituiva principalmente di espressioni in forma d’invocazione mentre, in epoca moderna, diviene un testo a carattere per lo più vivace. Acceso in questo senso è il verso nella prima parte del volume “Le lontananze” di Gian Piero Bona, autore nato negli anni Venti del Novecento, in relazione culturale con nomi quali Cocteau, Comisso, Flaiano, Visconti, Ionesco. E’ un procedere verso l’origine misteriosa del proprio essere, un andare interrogandosi verso l’approdo definitivo. Vocazione visionaria e panica, quindi, quella di Bona che depura il coglibile in una costante e prolungata parafrasi di uno stupore. La diafora feconda percezioni tangibili attraverso l’acutizzarsi dei sensi e le opzioni della memoria vigile. Nelle strofe gioca l’intreccio di passaggi e rime, espulsioni d’impurità ostiche, avulse dal partecipe ascolto delle mediazioni enumeranti. La poesia è un rientrare nel nostro intimo di ricordi e speranze, domande e aneliti. Le strofe, ricche di rimandi fonetici, accolgono composizioni e tenute di una classicità aperta al flusso biologico del contemporaneo, dove il coinvolgimento dell’allitterazione è consonantica traccia dell’esecuzione raffigurante una naturalezza seducente e motivata al quesito esistenziale. Non manca di mostrarsi la forza inarrestabile degli eventi; guerre e angosce, come fiori e lampade, alternano i tratti di un passaggio che compone le peculiari connotazioni del nostro pensare e agire, oltre le imprudenze abituali che consentono differenze, lontananze appunto, sorprese e visioni impreviste. Anche la dimensione onomatopeica consente di segnalare tracce quali orme concedenti l’appiglio necessario alla riconoscibilità degli elementi che compongono la raffigurazione della sensibilità posta al confronto diretto con gli umori. “Pendo come fronda tra le fronde” dice un verso del testo a coniugare percezione ritmica e denotazione di un moto che comprende il senso più originario del mutare, nell’evidenza delle trasformazioni; esse sono tra l’altro domanda e quesito, necessità di confrontare, in una evoluzione ove un evento di paratassi, più che essere solo procedimento sintattico col quale si pongono vicine due proposizioni lasciate autonome, assurge a una vera, filologica appunto, “disposizione accanto” dove il procedere affiancato non elide le identità e le nature indipendenti anche di opposte opzioni, in una venatura amara che incide nell’intimità degli enti. Emerge un dolore affrontato con ironia sofferta che lascia trasparire la frustrazione di rimanere ancora ad una lontananza da ciò che potrebbe divenire consolazione. Quale passo ulteriore si dice necessario per l’acquisizione intangibile, la svolta ammissibile? Si delinea il tratto di una pietà umana che non cede però spazio al rigore dell’osservazione, attraverso una dimensione che trae dalla musica l’esigente gesto della riproduzione interpretante. L’autore cerca una via di fuga: “cerco il pensiero che non pensa”; quando in realtà sappiamo che anche pensare di non pensare è sempre e comunque pensare. Non si nega il principio, lo si riafferma. Non si sfugge alla sorte inesorabile che ci fa umani, ponendoci a confronto con il nostro limite. La seconda parte del libro presenta i ricercari, in un rimando a quelle composizioni strumentali in stile contrappuntistico. Qui il poeta riesce a tendere verso un significato ulteriore e uno “spirito nascosto delle cose”; si fa meditativo all’insegna di una vocazione che chiede depurazione alla ricerca di valori estremi; ed è suono di echi muti, di naviganti che ritornano in patria, di affermazioni di Kant, di viandanti del sufismo, d’invocazioni e prigionieri, di evasioni ed epigrafi, di lune e metamorfosi, di miti greci e, infine, anche di un afflato mistico... “Nell’invisibile non vi sono distanze/ ma presenze costanti come vento”. Si ritrovano qui forme tecniche che, in alcuni casi, comprendono l’inserimento di terza rima a metà del verso che conclude una rima baciata e la presenza dell’anafora. L’ultima sezione del libro intona i canoni, in veste di obbligati e di enigmatici, dove le poesie acquisiscono il nome e il ruolo di Fughe che sempre più coinvolgono il ritmo della sonorità, inseguendo una possibile speranza che sappia nominarsi conforto.