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giorgio manganelli

Giorgio Manganelli "Discorso dell'ombra e dello stemma" (Adelphi Edizioni, 2017)
 

Ci sono avventure letterarie e linguistiche   che contendono alla riflessione la stagione delle interpretazioni   inesprimibili, come assalti barocchi in una prosa saggistica che vuole essere   trattatello eminente e, nello stesso tempo, ilare. Una vetta tra le rare   visibili, per maestria e fascino espressivo, la identifichiamo in “Discorso   dell’ombra e dello stemma”, opera pubblicata per la prima volta nel 1982, qui   riproposta in nuova edizione. Di Giorgio Manganelli molto è stato detto e   molto si potrebbe dire del suo sfrenato cavalcare alla sella delle parole, da   lui, mirabile giocoliere, ricevute come un dono o una condanna. Le parole,   appunto, che abitano l’autore. Questo titolo, che si presenta come una   disamina provocatoria sul fare (o subire) letteratura, in realtà ci spiega,   attraverso funamboliche figure, elencazioni ad effetto, inquietudini   lessicali, che la scrittura è tentativo di affidare a qualcosa la nostra   paura di morire. Una reazione quindi che è ricerca di un riso liberatore,   perpetuo, feroce perché spaventato, androgino nel riproporsi ai palati di   sfumature allitterative, iperboli metafisiche, conduzioni insensate. La penna   di Manganelli è imprevedibile e indomabile, provocatoria e derisoria,   appartata ed ermeneutica, ardita e miscellanea; comporta vagiti teoretici e   insane ipocondrie, coniugando sortite e confessioni, nell’amalgama sensitiva   dei tracciati. Il vagare del dettato prosastico evoca un tempo privo di   letteratura, dove gli uomini assorbivano i fenomeni senza identificare e   comprendere; tutto sembrava corrodere ogni possibile uso nella vana ricerca   affannosa di ciò che non c’era. Sembra quasi di cogliere un’eco di un titolo   del 1969, “Nuovo commento”, dove Manganelli immagina una scrittura di   commento, appunto, ad un testo inesistente. La supposta inutilità del tutto   rivela, invece, ad una sosta interpretativa più attenta, al di là   dell’inesausto divertimento vissuto dall’autore, una messa in discussione o   un vero e proprio ribaltamento delle cosiddette certezze intellettuali   acritiche. Si sviluppa un rapporto arcaico e abitativo con la pagina che   ospita le parole, con i luoghi che sembrano limitati da confini non fisici (e   ancora un riferimento sembra anticipare quella che sarà la straordinaria   prima opera postuma di Manganelli, “La palude definitiva”). Lo spazio della   mente è il vero teatro delle intenzioni e delle rappresentazioni, solcate nei   perigliosi tratti delle disperazioni e delle lussurie. “Lo scrittore del   tempo della nonletteratura accumula l’angoscia che sarà l’inchiostro del   domani” nell’incontro con una sorta di “durezza” che si svela quale   condizione di assorbita debolezza mimetizzata al fine di oltrepassare la   patologia dell’assenza, mirando alle “pagine interne, che leggono se stesse a   gran voce” e quindi sorge il compito autoriale della trascrizione “palindroma”.   La scrittura poi si fa androgina, accorpa il gioco di parole inabissato in   ciancio, chiacchiero, vaniloquio, tempestoso refuso. Nessuna direzione è   preclusa e, tuttavia, ogni indirizzo è frammentario, condono esigibile per   una patologia insanabile. Le parole chiave assumono qui valenze assimilabili   a innesti cadenzati al ritmo della flessibile istanza fonetica; la   scacchiera, lo specchio, ma più di ogni altro termine, l’ombra oltre il   sofferto accumulo della disgregazione. “La parola ombra è il buio; ma ombra   significa anche anima” ammette Manganelli nella costante provocazione   esegetica che attribuisce ai sensi l’abitacolo della rarefatta assunzione. E’   necessario allora conoscere l’ombra della parola, attraverso labirinti,   costellazioni, cunicoli che sono, in fondo, la nostra mente. Non sfuggiamo   all’ambiguità del doppio, in asserzioni che si colorano di rimandi al fuoco   delle controversie, tra identificazioni e sequenze, duplicità di accadimenti,   in rimandi che portano a ricordare sequenze teoretiche della logica, dove se   di due affermazioni contraddittorie, una deve essere necessariamente vera e   l’altra necessariamente falsa, due contrarie potrebbero essere invece   entrambe false. Ma tutto ciò irriterebbe l’anarchico moto di Manganelli che   intende disgregare il dovuto encomio nella proliferazione dei dissidi, così   come nelle identificazioni, quale l’identità della parola ombra e della   parola stemma. La tecnica di scrittura a elencazione colta sviluppa   elaborazioni efficacemente estensive e candidabili ad una partitura   flessibile nella sua composita letterarietà. Divagare è delizia, ma delizia   imputabile, come mediazione di una superba bellezza travolta dalla   ineluttabilità della modificazione, quando il flusso è generato da “rimbalzi   di fonemi, echi di caverne ventose, epifanie di miti”. Il riso stesso della   letteratura è visto come alto, antico, non antropomorfico. E’ dunque furioso,   temibile, distruttivo. L’aspetto in ossimoro si manifesta nello sviluppo del   dire “la letteratura è inutile. La letteratura è indispensabile. Si può   vivere senza letteratura, purché si sia già morti”; le parole stesse poi, una   volta pronunciate, diventano ineliminabili, “non conoscono iati, lacune,   soste, parcheggi, sonni” ma piuttosto, diremmo noi, ponti, lagune, viaggi, strade,   veglie. La fluttuazione linguistica e letteraria di Giorgio Manganelli è di   eccezionale perizia e magistero; esprime i virtuosismi di un secentista,   comprende vuoti, nonsensi, ossimori; anche la numerazione dei capitoli   presenta caratteri differenti di tipi e corpi tipografici quali fossero vere   e proprie sperimentazioni grafiche. Tutto costeggia la sonorità   dell’aggettivazione nei rimandi al tema del doppio,e ancora a Moloch e   Dioniso, Eco e Narciso, “Dante era nell’inferno perché contemporaneamente   abitava il cielo delle stelle fisse”, dunque l’ubiquo. Si identificano   lettori su diversi gradi di allontanamento e avvicinamento a ciò che il testo   stesso impone, trasformandosi in deserta casa, e proprio perché deserta,   forse casa per eccellenza. Un’eretica tentazione muove verso teologie   impreviste e dialogici confronti dove il luogo delle parole suggerisce   confermate reticenze. Vocazioni ad una distruzione che coinvolge l’arma   letale del discernimento, l’ironia indomita ed eversiva. Questo lavoro ottenne   alla sua prima pubblicazione i riscontri ammirati di nomi come Alberto   Arbasino, Angelo Guglielmi, Pietro Citati, Luigi Malerba, Luciano Anceschi.
  
  
      
  
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