giuseppe conte
Giuseppe Conte "Sesso e apocalisse a Istanbul" (Giunti Editore, 2018)
Giuseppe Conte, poeta, ha sviluppato negli anni un lungo tracciato nel quale i cardini del suo scrivere sono stati la letteratura e il mito. Una poesia che riconquista il desiderio, il diritto di essere, come scrisse Luciano Anceschi, “deboli con gioia”. Danzante, come la vide Alfredo Giuliani; con una inclinazione onirico-orfica, secondo Domenico Porzio. Nella tradizione di una linea ligure, da Sbarbaro a Montale, verso il sorgere, agli inizi degli anni Novanta del Novecento, del mitomodernismo di cui fu la voce più accesa. Una militanza poetica che ha visto procedere al suo fianco anche l’impegno del narratore. Molte opere in prosa, dall’esordio di “Primavera incendiata” (1980) a questo titolo “Sesso e apocalisse a Istanbul”. Conte ha sempre interpretato, con i suoi versi colti, le ancestrali radici dei miti greci, aztechi, celtici, il misticismo sufi, l’Islam; la necessità di sensibilizzare al recupero dei principi più profondi innestati nel sistema natura. Qui la trama prende spunto da un momento di crisi che caratterizza la contemporaneità e conduce il protagonista, Giona Castelli, libraio genovese, nella grande metropoli sul Bosforo dove lo attende un’amante, donna dotata di fascinosa seduzione erotica. E’ la forza delle passioni, quella che ancora sostiene Giona, che è stato costretto dal disastro economico a chiudere la sua attività lavorativa. Giuseppe Conte mette sulla pagina, attraverso lo sviluppo della trama, elementi forti che identificano la pulsione sessuale nelle sue forme anche più trasgressive come liberazione e capacità di cogliere la propria presenza in relazione agli altri. Ma non mancano tutti i molteplici spunti di chi si nutre di letture e di stimoli artistici e che fecondano la potenzialità del desiderare inesausto. In un contesto così ricco e multiforme, irrompe l’attuale nefasto incubo della violenza integralista, e il romanzo si tinge di nero, tra morti assassinati e atmosfere da complotto. Come ricostruire un tracciato evocativo diretto alle origini del nostro umanesimo nella sua forma più aperta alle esigenze della spiritualità inalienabile? Una vocazione alla ricerca, praticata in forme diverse e quasi opposte, confida l’adesione alla più intima e albale versione dell’identità che costituisce il profilo della sensibilità intellettuale, sempre più oppressa da un contesto sociale indifferente e alienato, votato esclusivamente alla finalità economica, e da un pervasivo senso acuto d’angoscia. Conte è un autore che rifiuta ogni distacco asettico; il suo legame con gli elementi e con le forze che muovono è prospettiva di connubio quasi sacrale, profetica necessità di auspicabili salvezze, pur nella consapevolezza delle trame incombenti e irrisolte. Le voci che testimoniano conduzioni lungo itinerari esplorativi e culturali audaci comportano l’esegesi dei ritmi e la proliferazione di spunti grati a quella ibridazione consapevole, capace di seduzioni e metamorfosi. Anche l’erotismo allora non è deriva ma conoscenza; esplicito coinvolgimento nei nuclei sostanziali della realtà creaturale. Nella seconda parte del libro si accentua, in un linguaggio reso più essenziale, la crudezza di una concezione che mette a fuoco tutta la tragica deriva del fanatismo integralista, argomento di particolare attualità, nella sua dimensione distruttiva e annichilente. La narrazione si carica di una valenza drammatica dove, nell’esito, solo la capacità di sacrificio per l’altrui salvezza rappresenta la vera e unica categoria degna di contenere il senso più autentico, in grado d’indicare una catarsi estrema. Ma non si potrà mai comprendere del tutto il cuore davvero significativo del percorso di Giuseppe Conte se non si torna a versi come quelli di un suo titolo fondamentale, che colpì particolarmente chi cura questa nota, all’epoca della sua pubblicazione, “L’oceano e il ragazzo” (1983), in cui scriveva di Porto Maurizio, suo luogo natale: “Il destino è tornare dove si è nati./ Lo sanno tutti i fiori, i templi, i soli/ che sono come noi ancora da alzare/ non profetati, e già polvere”.