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giusi quarenghi

Giusi Quarenghi "Basuràda" (Book Editore, 2017)
 

Vorremmo davvero fermarci a guardare,   tra la rondine e la nottola di Caproni citate in epigrafe, in quell’ora bassa   verso il tramonto, ora detta “bas-ura”, quando nella sera giunge un   suggerimento d’aurora e la luce rivela le cose, le conduce all’accadimento.   E’ il libro di poesie scritto da Giusi Quarenghi dal titolo “Basuràda”, dove   ci si alza silenziosi “a vegliare gli ultimi giorni/ le notti lente le albe   tarde/ la quieta agonia della luce”. Il verso iniziale è breve, musicale, ha   cadenze d’involucro espressivo nella tonalità panica dell’attesa, attraverso   rimandi sillabici e ritorni allitterativi che favoriscono un accostarsi di   suono evocabile nel passo stesso della ricezione. Lo scenario naturale   acquisisce carattere di genere e si fa fertile espositore di sensibili   agnizioni concentrate sul dato percepibile e filtrabile. Ci si appresta a una   lode che deterge gli alimenti intuibili all’effetto della staticità superata   e dissolta nel concreto linguistico reinterpretato alla fonte di una   contemplazione lieve, dove pure il dolore si accosta nel pudore della   consapevolezza svelata, acquisita, raccolta; l’esposta tenerezza del porsi in   relazione con le debolezze anche quando sono quelle della identità materna.   Giusi Quarenghi poi estende maggiormente la struttura del verso, dilata   parti, inserisce iati, corrisponde estinguimento d’assalti quando potrebbero   farsi impropri, li placa, li risolve garbata in vocazione di quietezza.   Sembra di cogliere i sussurri del vento, le sfumature che colorano le nostre   percezioni nei minimi attimi che aprono ad un significato che li trascende e   proprio per questo li scolpisce attraverso le concessioni mutevoli della   luce, le impressioni scavate nei dolori che includono la condizione del   mortale. E si dipana ancora un sentimento che disegna le figure della danza   “...nello scatto/ rosso di questa ragazza nera/ nelle geometrie dei fianchi/   a prendere e lasciarsi nella luce”; qualcosa che sembra riecheggiare l’eco di   una atmosfera descritta da Laura Pariani, “quando Dio ballava il tango”. Ci   sono poi le voci dei morti che sapranno perdonare, forse anche quelle degli   uccisi, ma che almeno gli assassini lascino stare la parola. Così l’incontro   è con la suggestione dei luoghi, diversi, come da Gerusalemme a Gerico, o   come nella davvero bella poesia di ambientazione francese: “vorrei eseguire   Parigi/ il platano d’oro dal sottoponte/ delle Tuileries il fiume di/   novembre dal sax tenore/ di un uomo vecchio che si ostina...”, e le ali   percepibili possono persino essere quelle d’angeli che vanno dove sono   voluti. Struggenti poi i versi che raccontano come i particolari e gli   oggetti del quotidiano vivere avrebbero potuto bastare a trattenere le azioni   violente espresse dagli orrori dell’antisemitismo e di ogni forma di persecuzione.   Il testo va a concludersi in un tono dolente che riecheggia le figure amate e   scomparse, le assenze ossimoricamente presenti, i lamenti delle perdute   vicinanze e quella concentrata espressione che fa dire alla poesia di Giusi   Quarenghi “nessuno che manca è/ il paradiso”.
  
  
  
  
                               
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