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Leonardo Sciascia

LEONARDO SCIASCIA "FINE DEL CARABINIERE A CAVALLO" (ADELPHI EDIZIONI, 2016)

Vengono raccolti per la prima volta in volume e con il titolo “Fine del carabiniere a cavallo”, trentatré brevi saggi letterari di Leonardo Sciascia, pubblicati in giornali e riviste tra il 1955 e il 1989, anno della morte dell’autore. Nella migliore tradizione di un “saggista nel racconto e narratore nel saggio” i testi proposti rivelano tutti i pregi della scrittura di Sciascia ma anche le connotazioni tipiche di un pensiero datato ad una “cementificazione” ideologica, oggi particolarmente evidente. Lo scrittore siciliano spesso utilizza impropriamente il termine poesia, riferendolo a stati d’animo e atmosfere, evoluzioni ambientali che, da sole, non mettono in evidenza l’effettiva realtà di un comporre versi, raramente affrontato nella sua natura sostanziale. Ciò deriva da una scarsa considerazione dell’elemento puramente tecnico e stilistico, anche nella sua valenza teorica, a vantaggio di una priorità data al contenuto militante. Illuminante in questo senso l’affermazione, relativa all’impegno intellettuale dei poeti della Resistenza francese, “né riusciamo a vedere come un testo possa splendere di verità e mancare di poesia. E se un poeta non scrive parole che vogliono farsi azione non sappiamo davvero che cosa e perché scriva”. Esempio tangibile di quale deriva abbia raggiunto, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, l’equivoco di vedere il contenuto politicizzato come primario metro di valutazione. Teniamo presente che tali espressioni rientravano in un articolo pubblicato nel 1956 dalla rivista “Officina” di Roversi, Leonetti e Pasolini. Per Sciascia l’impegno culturale è impegno strettamente politico e in un senso specifico e determinato. La comprensibile e giustificabile dizione antifascista si colora però di una vocazione altrettanto nefasta, quella marxista, in realtà ugualmente antidemocratica, vista invece come “costruzione di un mondo nuovo”, quasi che la deriva dittatoriale, già in embrione in quello stesso pensiero, fosse visibile solo ad un lato. Così anche l’interpretazione delle vicende relative alla guerra civile spagnola, dove giustamente si denunciano i crimini compiuti dal regime di Franco ma si passano sotto totale silenzio le aberrazioni e le violenze perpetrate, nella fase precedente, dai militanti comunisti e anarchici in seguito alla vittoria del fronte repubblicano, degenerando in uno stravolgimento effettivo degli stessi programmi elettorali annunciati. Nei saggi più propriamente letterari spicca la sottovalutazione di un’opera determinante per la letteratura del Novecento, “Ulisse” di Joyce, definito sì di una specifica particolarità e unicità, ma per essere essa più quella del “caso clinico” che dell’opera di poesia, adottando un’infelice definizione offerta da Jung, non riuscendo a scorgere quindi nel testo la peculiarità di una vera e propria prosa creativa. Appassionate invece le espressioni di apprezzamento nei confronti degli esiti di Calvino, Andric’, E.M. Forster. L’elemento che risulta convincente è nella forma di scrittura che Sciascia utilizza nei saggi definibili letterari, dove lo sviluppo articolato procede con un passo che sembra divagante rispetto al nucleo tematico, ma che in realtà concepisce un movimento corposo e solido che dilata in cenni evocativi i richiami più propriamente linguistici. Dopo una prima parte di resoconti dichiaratamente militanti, si apre il comparto centrale del libro, dedicato a vari momenti e riflessioni sulla storia e la cultura europea. Chi scrive questa nota, muovendosi nell’ottica della critica stilistica, lontana da derive ideologiche, riesce quindi a individuare la potenzialità qualitativa concentrata ed espressa dalla struttura stessa della scrittura di Sciascia, al di là di posizioni personali e giudizi di merito. Godibili i passi che tratteggiano incontri quali quelli tra Dumas e Garibaldi, Casanova e Voltaire, nonché una certa riconosciuta delusione nei confronti degli sviluppi propriamente italiani del ’68 e la polemica, nella seconda metà degli anni Settanta, sulla desistenza attuata da una sinistra ufficiale in odore di compromesso storico. L’evoluzione dei brevi saggi conduce poi ad una sempre più marcata considerazione dei fatti sociali alla luce degli strumenti critici offerti da letterati e scrittori in funzione di mediatori; primi fra tutti gli amati Stendhal e Pirandello. Si definiscono come “ritratti complici di contemporanei” i passi che costituiscono l’ultima parte del libro; interventi su vari nomi, tra i quali: Giuseppe Antonio Borgese, che viene particolarmente sostenuto da Sciascia in quanto riconoscibile in lui la qualità della correttezza intellettuale antifascista; Leo Longanesi e la sua personalità allo stesso tempo conservatrice e anticonformista; Alberto Savinio, ritenuto, dopo Pirandello, il più grande scrittore italiano del Novecento; Eugenio Montale, apprezzato ma in quanto considerato, per sua e nostra fortuna, il poeta meno musicale d’Italia, dimenticando, o fingendo di dimenticare, che la poesia è anche la musica delle parole. La serie dei riscontri si conclude poi con l’aperto sostegno a due nomi siciliani meritoriamente individuati tra gli scrittori di alto livello come Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo.



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