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MARCO BINI "IL CANE DI TOKYO" (GIULIO PERRONE EDITORE, 2015)

L'accentuazione del tono sensitivo è già nella prima poesia di quest'opera di Marco Bini  "Il cane di Tokyo" (Giulio Perrone, 2015). E conta il contatto con una fisicità primordiale, epidermica ma già simbolica, poiché oltre un movimento del tempo che porta a delineare la certezza di una fine che è inizio... nel sangue, nei corpi, nelle vicinanze di energie che si disfano parzialmente di scorie esiziali. Ci sono richiami, inerzie, spazi, saluti morti in gola, piazze metafisiche, luce di neon acceso. Non si dia però troppo sfogo al timore... forse un cielo è opzione ulteriore, luogo e non luogo simmetricamente contrapposti. C'è un equilibrio classico in questa poesia di Marco Bini; una efficace architettura di strofe concentrate in tempi e calibrature esatte. Nitori non evidenti ma traccianti un filo semantico ben sostenuto dai significanti posti sulle tappe dell'osservazione mai manchevole; quasi che l'esigenza di una responsabilità costituisca un connubio con il senso intimo e istintivo. Allora le sere sono anche sussulti che immaginiamo oltrepassare lo stato di fissità dei previsti atti, nel tendere all'ipogeo della difesa estrema e solitaria. Anche certe quartine concedono figure all'esatta separazione delle attese, ai rimandi placati attraverso la compattezza delle circostanze, nei giusti ritmi metrici. Bini sembra pretendere dallo spazio della pagina, spazio da abitare, una generosità matura, un contrasto con il nero della scrittura che sia "in armi contro il vento vinto e inerme". Lividi di nuvole, freddi capaci di sbucciare ogni cosa, l'incontrarsi nelle notti glaciali, linee e punti, uragani elettrici, allitterazioni, successioni di materici rimandi. Una energia giovane ridesta la corporeità ambigua dell'umano privarsi e provarsi nei temporanei dinieghi, nelle scolpite configurazioni che sanno poi evolversi leggere verso manufatti dimensionali. Rimandi storici venati d'ironia amara, accenni al mondo della cinematografia, e infine un poemetto che offre il titolo stesso al libro e che ricorda un episodio avvenuto nel 1925 a Tokyo dove, presso la stazione ferroviaria, un cane continuò a recarsi fino alla sua morte,per attendere un padrone che non ritornerà. La domanda sul senso dell'amicizia, della lealtà, di una certa positiva ostinazione, del trovarsi e del perdersi, di un materioso  sentire che non si arrende, è quesito sulla grandezza delle piccole cose... a che cosa si può paragonare il Regno dei Cieli? A un granello di senapa... "...Mi aspetto/ benzina e impulsi eccessivi se vedo/ alla banchina la tua forma tenera"; come il tempo irrimediabile, il conforto è fatto di un verso che accelera la distanza da una solitudine, la costanza è parola significante capace di ospitare anche l'inesprimibile. Nel testo di Marco Bini non manca nemmeno una "luce fiamminga" che attende ricompense inesauste, afrori contagianti, trasmodare dei minuti, liriche d'amore, alberi caduti, pezzetti di poesia, in una vocazione che non dimentica l'opzione dialogica. E' allora davvero  "una sera di quelle"...


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