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maria grazia calandrone

MARIA GRAZIA CALANDRONE "SERIE FOSSILE" (CROCETTI EDITORE, 2015)

Già dalla prima poesia del titolo di Maria Grazia Calandrone “Serie fossile” (Crocetti, 2015) emergono alcuni vocaboli particolarmente significativi: seme... elemento che genera, debolezza... fragilità ma anche preziosità, il sintagma “metti il dito” che riecheggia, in altro senso, il “mettere il dito nelle piaghe” del dettato evangelico, occhio... capace di sfiorare visioni in una sinestesia lieve, perdono.. dal quale si intraprende un nuovo cammino. Ci sono misure vegetali e sensi umani che compiono il loro tragitto sulla pagina divenuta foresta di simboli evocante motivi letterari nei quali il peso dei termini è condensazione minerale e correlazione di elementi. Versi asimmetrici e proposte di rime operano nella danza aperta dagli spazi un rivissuto reinterpretare i segni alla luce di una fisicità ancestrale. Una preistoria dove già vivevano sguardi che testimoniavano passaggi, rinascite... “sei passata attraverso/ l’oro verde dell’iride”. Una necessità della natura che è forza, dolore, ma anche molto di più dello stesso amore... quando il vuoto deve essere colmato dalla consapevolezza metafisica di soggiornare all’interno dell’essere che sussiste all’opposto del nulla. E niente di ciò che era prima sembra andato perduto; ogni traccia è orma di riti e ruoli incancellabili. C’è un’immagine molto significativa legata ad una partecipazione intima ma esposta, quando si nominano “bambini lasciati sulla sabbia salata/ come costellazioni terrestri”, quei “bambini abbandonati una volta” che però “tornano/ aspirati dal vento”. E c’è gratitudine, commozione, bellezza, anzi insostenibile bellezza, struggimento, tutto ciò che si oppone a un dato puramente oggettuale, perfino fossile. Sembra che Maria Grazia Calandrone, una delle voci poetiche più significative della sua generazione, qui voglia prendere atto di tutto ciò che esiste evidenziando l’infinita serie di relazioni tra l’effusione e la percezione, tra ciò che diciamo “io” e ciò che diciamo “mondo”, dove l’uomo si fa protagonista di una testimonianza quasi postuma ma ancorata alla condensata materialità dei nuclei esistenziali, dalle molecole sorrette dal soffio vitale intimo dei fenomeni. La metamorfosi “si apre all’alba”, tra componenti di un insieme abitato da sostanze, colori, vegetali, transumanze reiterate, allo stesso tempo quotidiane e simboliche, sensi del coraggio necessario per saper morire e rinascere. Ed è serie davvero, forse bianca o diafana, e forse ancora contraria al suo dire e predire, rifare verso a mutazioni distinte, a profumi, a suoni del sistro, a incastri di luce che segnano notti non apparenti ma devote alla combinazione delle essenze. La tecnica di scrittura sembra, a volte, voler sospendere la versificazione e farsi prosa, struttura poematica e prosastica in immediata alternanza, intelaiatura che vive iati ed inneschi fruibili ad un sentire progettuale ed ermeneutico. Tra passato e futuro sembra delinearsi nitido lo scenario desertico e arido ove però emergono, testimoni inattesi, tensioni e varchi, gioie e splendori, lucciole notturne e febbri primaverili, un infinito passato da cui sembra tornare una forma animale al trotto che richiama quella “cavallinità” espressa nelle pagine di un’opera di Giorgio Manganelli. Un nome che poi ritorna in vari momenti è quello di Pier Paolo Pasolini. Proprio il poeta corsaro è stato infatti particolare poeta del “corpo”, del famelico divorare ogni cosa per poterla sentire e porre sotto l’attento esame dello sguardo, dalla parte di un rito che scopre la “poesia in forma di rosa” e che qui diviene “amore a forma di cosa” nata e risorta in un trasumanare che è conflitto. Spesso i versi sono di una trincea dura, aspra, dove incombe un’assenza voluta di possibilità fonetiche ad altro rinviate affinché i depositi enucleati convergano verso la fisicità stessa di caratteri che, ad esempio, in un particolare testo si fanno anche tipograficamente anarchici, imprevisti, molteplici, esposti nell’atto di concretizzare quasi teche museali di un possibile itinerario nomade attraverso incisioni differenti. Una distesa di rovine, tracce archeologiche dove, in contrapposizione, si pongono stille di sangue condiviso, radici di miti e culture veicolati in stimoli che sarebbero piaciuti a un poeta come Dorian Veruda, anche se la poetica di Maria Grazia Calandrone si muove in una dimensione sicuramente differente da quella propria di un certo mitomodernismo. Determina e caratterizza poi il tutto un aroma sensuale, un umore femminile che evoca a sé il diritto-bisogno di rivolgersi a un tu amato, ontologicamente espresso, dove il suono è senso e la cura è pace.
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