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massimo morasso

Massimo Morasso "L'opera in rosso" (Passigli Editori, 2016)
 
   
E’ un’assonanza e uno iato del verso   che si colora di rosso... è un passo a ridosso di ciò da cui non si   sfugge...è un riflesso di un dettato arcaico che stimola il ricordo poiché   “in me il passato non è morto. E’ qui” confida Massimo Morasso in questo suo   esito poetico. Sono voci interiori quelle che iniziano un dialogo serrato e   fecondo, quasi trascritto dall’autore, in lontananze recuperate con la grazia   di un impegno maieutico. “L’opera in rosso” muove dati sintattici e cadenze   fonetiche su temi di un’ampiezza sorgiva che conduce dalle strade di Genova,   città d’origine di Morasso, alle sideree distanze di galassie all’interno di   un universo che si espande; e tutto ciò è capace di proporre interrogativi   viscerali rivolti all’attesa di svelamenti e significati profondi. I versi, a   volte, si fanno onde asimmetriche, indicando le spoliazioni incaute delle   ombre e dei segni minimali; tanto da districarsi tra gravità coriacee e   materici contatti. E’ “fra il rosso e il giallo ciò che resta del cammino”,   mentre il comporre passi solitari permette di interpretare le voci spirituali   che pongono il drammatico incedere dei nostri destini, quando solo una nota   ulteriore concede lo spazio del possibile riscatto. “Un più aranciato   tramonto/ il relativo maggiore/ di un’estate che scoda oltre se stessa,/   precipitando fra i cespugli/ oltre la duna”, di misura in misura, attraverso   una elaborazione cromatica che dispone alla ricezione di sensi esposti alla   complessità di accadimenti che subiscono anche l’irrisolto dilemma di lutti e   passaggi. La dimensione pulsionale si concretizza nella fede in una vita che   vince sulla morte, nella resistenza condivisa dai dialoghi interiori che   ricercano conferme nel recupero dei dati dell’infanzia, stagione fondante e   cimento nel senso di avventura e sfida ancora capace di illusioni. “Il   Paradiso, che fu prima del prima. Quindi la storia./ E con la storia la   raffica dei nomi”, e la poesia davvero tende ad una concentrazione dei ritmi   spazialmente disseminati in figure scalari “dove risuona l’eco dell’origine”.   La parola, dunque, frequenta l’abissale dedalo delle interpretazioni, l’invasivo   perimetro delle mutazioni.
  
                                                                                                              
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