mauro ferrari
MAURO FERRARI "IL LIBRO DEL MALE E DEL BENE" (PUNTOACAPO EDITRICE, 2016)
Mauro Ferrari, attivissimo operatore culturale nell’ambito della poesia, ci propone questo volume antologico “Il libro del male e del bene” che raccoglie tre suoi testi precedenti composti nel periodo che va dal 1990 al 2006. Molte le riflessioni critiche positive ottenute negli anni dall’autore; da Donatella Bisutti a Giorgio Luzzi, da Giancarlo Pontiggia a Rosa Pierno, da Alberto Cappi a Luigi Fontanella. La versificazione di Ferrari tende a valorizzare l’elemento d’indagine propria ad una percezione filosofica che, muovendosi ai differenti influssi di classicismo e romanticismo, tende a farsi moderna nell’accezione più montaliana, in un crescendo riflessivo attuato sulla pagina attraverso strumenti che si confrontano con l’oggettività del contesto, con l’ontologia del reale. Già l’inizio è infatti considerazione della genesi che ha coniato il sensibile dal caos primigenio, tra riflessi d’ambra e rivi di lava, bacche e mele, nell’attesa del dopo che andrà a svilupparsi creando una storia che è anche la nostra. La materialità degli oggetti disseminati convive tangibile con le sensazioni della perdita e della domanda; quando vagare diviene sinonimo di ricercare il tratto possibile e auspicabile in grado di definire ed elencare ciò che ha superato la disanima attenuante il contrasto e il naufragio; nella necessità di salvare almeno quegli strumenti umani così ben focalizzati da Sereni. Il senso del fallimento estremo ed esistenziale è in agguato tra le percezioni sensoriali che avvolgono la lucidità testimoniale del poeta intento a concretizzare linguisticamente il primario e fondante rapporto significante/significato. E’ la stilistica filosofica che congiunge i temi del dato formale e del presidio concettuale in una auspicata soluzione dialettica dove ogni passaggio si pone come essenziale elemento per la comprensione del quadro poematico. Così l’anacoretico porsi al limitare delle cose, colte nella loro estensione e consistenza oggettuale, attraverso il sofferto bisogno di espiazione, prende contatto con la roccia che è concretezza tra cielo e mare, fra gli elementi collocabili all’interno di un percorso nominante e interrogante, intriso di pulsioni intellettive composite, affioranti. L’affondare quindi il bisturi dell’analisi nelle pieghe del dettato costituito da timbri e dati percepibili dai nostri sensi, in primis quello della vista, porta ad evidenziare in Ferrari un andamento panico che include considerazioni critiche e amare, disilluse, nei confronti di un contesto privo di consapevolezze profonde, quelle che l’esercizio attento della poesia richiede e ricerca con perizia inesausta accontentandosi, magari, anche solo di resistere, come scriveva Rilke. E il tutto suona come una interpretazione di qualcosa che si avvicina al senso dell’ontologia greca quale ontologia dell’esperienza dell’essente che si mostra come significante e viene quindi a espressione nella parola. Il poeta, inoltre, sentendosi chiamato ad esprimere una propria personale osservazione non confonde dialettica con eristica, ma s’inoltra in una applicazione letteraria che condivide i propositi di una pratica ermeneutica. Il linguaggio quindi si fa essere, domandando, nella verifica degli strumenti applicabili alla nostra percezione. Ma l’osservazione ci costringe a “percorsi liquidi/ legami atomici più deboli”, viandanti ad una soglia aurorale interrogativa e complessa che non abbandona l’opzione incessante avviata a equivalente sorgiva in fase d’appello, di chiamata, fino ai segni della naturalità circostante, quando “una luce di tramonto che scivola/ veloce può rendere l’idea”. C’è un confronto continuo che pone sugli argini di un fluire pensoso gli elementi di natura e le domande riflessive, anch’esse parte integrante di un tutto che sussiste e si pone esso stesso all’interno del quesito esistenziale che nel procedere dei versi sembra mantenersi irrisolto. Se non che la domanda, sapendosi tale, deve già necessariamente presupporre una forma di risposta; il bisogno di senso si manifesta solido come necessità inalienabile di valore perenne. E la condizione si fa confessione narrante, voce sola e intima posizionata nell’estremo stato interrogante flussi e tempi, memorie e timori. L’asprezza coniuga vocalità discorsive a riprodurre l’imbarazzo sensibile di fronte alle prove, ai mancamenti, nella volontà di riprendere comunque il passo della ricerca, caricandosi di scorie e frammenti deposti, interpretando anche tutta la pesante gravità di un dolore che si esprime particolarmente nell’ultima sezione “in mortem” dove viene evocata la figura paterna, e la nostra stessa vita terrena si rivela un passaggio “fra l’utero che si contrae/ e il chiudere del marmo”.