nicola gardini
NICOLA GARDINI "LA VITA NON VISSUTA" (FELTRINELLI, 2015)
Il rimpianto è nutrimento. La forza pone le sue basi su riflessioni che riguardano l’irrimediabile. E’ forse questa la struttura portante che sostiene la vicenda di Valerio, protagonista dell’ultimo romanzo di Nicola Gardini “La vita non vissuta” (Feltrinelli, 2015). O meglio questa è una possibile descrizione di ciò che può accadere ad un personaggio che si trova a convivere con la sieropositività. Tema da anni affrontato in molti modi e forme, in sviluppi che pongono sulla pagina rabbia e rassegnazione, ribellione e domanda, speranza e angoscia. Gardini utilizza una prosa che sembra quasi non curarsi troppo della forma, presa dall’urgenza di gettare tra le righe tutto quello che rappresenta e comporta per il protagonista il convivere con quella condizione. Una patologia che ti trasforma in untore e dove gli effetti fisici s’identificano con i segnali che il corpo espone e la mente prevede e anticipa, a volte solo immagina. Sembra, leggendo, di ritornare ai primi tempi in cui la diagnosi era sinonimo di condanna, esecuzione capitale certa. Oggi, fortunatamente, possiamo parlare di uno stato divenuto, pur nella sua gravità, gestibile, quindi cronico. Ma per l’autore proprio questa cronicità assume l’aspetto di una dimensione altra, tale da trasformare l’identità portandola a identificarsi con una corrispondente “assenza” di salute. In realtà qualcosa conduce a scoprire, nel percorso di Valerio, il bisogno non solo di riaffermare le proprie peculiarità, tendenze, orientamenti, quanto il potere di reinventarsi più simili a se stessi di quanto possa comprenderci chi ci guarda. Qui, paradossalmente, la scrittura sembra farsi sbrigativa, inadeguata a cogliere l’essenza che sola si recupera attraverso il coinvolgimento dei classici. “Lascia il resto agli dei, che all’improvviso/ abbattono nel mare ribollente/ Le battaglie dei venti...” recitano i versi latini... evocazioni dei sensi a confronto con i segni sulla pelle...ma tutto questo nel contesto di una domanda inesausta, di un rovello esistenziale, di una cruda descrizione di sintomi dove l’apparente risposta è il rifiuto posto da chi non vuole morire, ma più ancora non vuole non vivere. Anche se la condizione stessa dell’uomo, in questa vita fisica, è a termine. Pelagus, vulgus, virus, tre termini latini, ci dice l’autore, che pur terminando in “us” sono neutri. Tutte espressioni però negative; il virus poi, il veleno, ti entra nel sangue e diviene coabitatore del tuo stesso esserci. Ma forse quello che il testo auspica è la forza di un desiderio che possa rappresentare la normalità di chi vede nella vita dell’uomo, così come ammetteva Aristotele, il bisogno di raggiungere la felicità. Anselmo d’Aosta, nel Proslogion, vedeva convivere in Dio l’infinita giustizia e l’infinita misericordia, nel senso di un ente primo giusto verso se stesso, misericordioso verso gli uomini. Espressioni che non si contraddicono perché vanno in direzioni diverse. E’ la libertà che il bambino esercita nella sua stanza sapendo della vicinanza dell’adulto in quella attigua. Se per misericordia intendiamo in particolare la “virtù del comprendere” potremo allora essere delicati e corposi allo stesso tempo nel vedere l’uomo come evento libero che inizia a morire dalla nascita per ricostruirsi e farsi altro, come ci è concesso, nella piena dignità delle molteplici sfumature che rendono l’essere umano un creaturale mosaico policromo. Nicola Gardini in questo libro non ha voluto cullarci o consolarci, ma metterci di fronte alla possibilità di uno stato, di una condizione come quella della malattia che è accettazione imprevista, capacità sempre di essere pienamente se stessi e pienamente con gli altri. Potenza che diviene atto nel momento in cui il volo non è esperienza sognata ma trasformazione in passi solidi che alla terra si concedono ma che alla sola terra non si limitano.