nina nasilli
Nina Nasilli "Tàsighe!" (Book Editore, 2017)
C’è l’innocenza del canto e la sensualità degli elementi, nei gesti e nelle voci poetiche di una lingua che s’innesta in una terra antica e materna, d’origine e di ricerca, verso il punto d’inizio che si moltiplica nei desideri come il tempo che la fisica ci rivela ubiquo. Le cose sono eventi e riemergono in questi versi coniati in una lingua che, come ci confida l’autrice, è un dialetto veneto articolato, “un nucleo rodigino – polesano con innesti patavini e talora anche chioggiotti”. Un percorso lungo spazi aperti tra Rovigo e Padova, luoghi di riferimento per Nina Nasilli, poetessa ed artista di particolare spessore e qualità. Il libro dal titolo “Tàsighe !” (Taci, dai!) concorre all’inaugurazione di una nuova collana di Book Editore, sigla diretta da Massimo Scrignòli, che giunta al trentesimo anno di attività propone questa raffinata Biblioteca del vernacolo dedicata ai dialetti. Da tale poesia emerge un’autenticità fiera e nello stesso tempo mite, quasi lunare, oltre le viandanze erranti delle scoperte e dei mutamenti. Nasilli recupera umori di memorie vissute in anfratti ancestrali, alcuni forse riemersi attraverso stimoli sensoriali riconosciuti e interpretati. Consiglierei di avvicinarsi a queste pagine verso sera, quando il ritmo antico della proposta sillabica seduce e obbliga a non contare altri spunti che si diradano per lasciare voce all’epica di una natura autentica e svelata; allora sarà un sole che si accorcia o una rosa bianca che sta fuori stagione; saranno “làgreme che e pareva na bròsema” (una brina), la festa dei giorni, la capigliatura gitana; poi foglie e radici “fòja o raìsa”, mani infilate nella terra, le emozioni più segrete, l’inquietudine dei rapporti sempre enigmatici, le ansie e le paure, quei rovelli da dissidenti o da poeti, le preghiere intente a strappare un perdono e quella particolare notte che non è più notte. La grafia, sul piano tecnico, è ricca di segni e accenti indicati per rendere la potente oralità della fonetica. Una radice vegetale e minerale si accompagna alle sensazioni più intime, alle fughe dei desideri in correlativi che sostengono, nella saggezza delle tradizioni, l’attimo da cogliere a significare l’oltre, la viscerale ribellione capace di aggiungere il tono decisivo e umorale. Un alito fresco deterge i versi e li evidenzia all’interno di quell’etica minima capace di aspettare. Tutto diventa quindi significativo, alla luce della rivisitazione; anche un secchio rovesciato per terra... “chea sécia roversà / par tèra / in cortìe”. Gli amori poi conducono a riquadri tratteggiati dove gli stili di diverse accezioni vernacolari s’intrecciano a dimensionare una contiguità saporosa che evidenzia sensualità estese attraverso la dicibile proprietà dell’effetto epidermico e mnemonico, in un andare partecipe: “tàcate al mé braso / e viénme drio/ che intanto ‘ndémo”... quasi a cercare un antro a difesa, un luogo a polvento.
NINA NASILLI "AL BUIO DEI NODI ANFRATTI" (BOOK EDITORE, 2016)
“comprendo il verde attraverso il rosso/ diversamente io non posso...” quasi una dichiarazione di poetica nella quale è possibile indirizzarsi in ciò che l’elemento visivo determina come segnale, agnizione, ma anche richiesta e desiderio. Un sentire che prepara al comprendere; una soluzione sempre da ottenere... coinvolge così il libro di poesie “Al buio dei nodi anfratti” di Nina Nasilli, autrice e pittrice. Da subito la vocazione al senso del Tutto è detersa in una ramificazione verbale quasi vegetale, pulsante, simbiotica; e se quello che vediamo pensiamo sia solo una parte allora, necessariamente, sarà sempre parte dell’intero. “Il Tutto è la mia casa” scriveva Marina Cvetaeva. La partitura di Nasilli è mobile, intrecciata, in potenza ma già in atto; una sorta di procedura riconducibile quasi alla nozione di formatività in Pareyson, dove il termine indica un agire innovativo, un produrre che è invenzione; qui diremmo una poiesi che mentre fa, inventa il modo di fare o almeno lo scopre, altro, nel contesto che abita. E’ forte la fisicità pensosa che emerge da questi versi, dove i colori accompagnano l’abitare nello spazio/mappa della pagina. Anche la suggestione dei luoghi è primaria e trascina attraverso l’individuazione di una valenza concentrata sull’ascolto, sulla delicata presa di coscienza delle spinte vitali anche più crude e testimoni di una procedura che denuda l’intimo e lo interpreta. In questo senso è bene citare alcune strofe davvero potenti che efficacemente esprimono una certa tonalità: “ ora gridano i giovani maschi/ in Rue Saint-Denis/ forte/ gridano/ di notte/ dove fingono le prostitute/ coi seni aperti/ e i fianchi allargati/ mentre a passi inginocchiati/ un altro osso-scarno/ carenato/ ti rammenta tuo padre...”. I pudori, qui, non sono timori né vuoti rimpianti esangui quando non diventano rimorsi. Ci sono brezze serali che ricordano i notturni parigini di Modiano, ponti da cui affacciarsi mentre i giorni vanno, che evocano Apollinaire. E poi pittori come Bonnard e Courbet, scrittori come Proust e Kafka, Pessoa e Ottieri, quest’ultimo figura di riferimento per la formazione culturale dell’autrice. Il significante diviene quasi contenitore di sentimenti... interessante, in questo senso, anche se non esaustiva, era una precisazione sul tema fatta da Stefano Agosti in occasione di un commento alla poetica di Zanzotto. Si riprendeva, in quel caso, una doppia accezione del termine “significante”, la prima di tipo linguistico, la seconda di natura psicoanalitica (lacaniana). Da ciò un ulteriore significazione vedeva, nell’ambito linguistico, la possibilità per il significante di riferirsi non solo ad un significato ma anche a relazioni con significanti di altri segni. Inoltre, nell’accezione psicoanalitica, il significante era qualsiasi elemento della lingua che rinviasse non tanto ad uno o più significati quanto a un nodo di senso, nell’intreccio o nella stratificazione di valori. Nel testo di NIna Nasilli la matrice linguistica converge sulla esplicazione degli elementi strutturali e concettuali; intreccia con la vocazione visiva la “matericità” dei grumi verbali. La parola è comunque sempre calibrata, attenta, frutto di una selezione che ammorbidisce ogni approccio consiroso. Perché la tonalità cromatica disegna sfumature nitide e allo stesso tempo ibride, come gli intarsi che s’innestano nel telaio delle spazialità asimmetriche. C’e un percorso filmico, quasi, che dona un’accoglienza lessicale dove il “tu” è interlocutore silenzioso ma presente, e il tono esprime naturalmente una vocazione che coinvolge una certa religiosità nella domanda che non attende necessariamente risposta, ma condensa in sé il percepito, il sapersi relazione nelle incisioni paniche e generose attraverso un sentito fluire eracliteo. Come potrebbe attivarsi, in questa presenza di termini che si collegano foneticamente, una chiamata che conduce a esegesi delle sensazioni percepibili nel contatto con le sfumature che il contesto rivela. Si percepisce, leggendo, che ci sarà uno snodo, un angolo, una traccia, un indirizzo possibile dove acutizzare lo sguardo in un recupero di episodi apparentemente isolati che ritrovano una trama deposta, esperita attraverso dati prossimi che propongono ripari e anse disposte ad offrire una tregua. Ben composte, nell’ultima parte, anche le “sim-metrie” coniuganti unione e misura, in veri e propri risultati metrici in forma di madrigali, sonetti, strambotti portanti un senso di coinvolto sentimento amoroso che dispone a cogliere notizia di un cedere ad un tempo dove “ferisci in ore erranti e mattutine”.
Nina
Nasilli “Prossimità” (Book
Editore,2019)
La valenza culturale è saggiamente determinata nel
momento in cui sa dirsi prossima. Rinviene eccelsa e sedimentata nel vagito
della sensibilità più acuta e divora con occhi dell’intelligenza. Le epigrafi
di apertura avranno allora cenni biblici e classici. Qualcosa di vicino,
nell’espressione del Deuteronomio, così come ciò che si separa e nuovamente si
aggrega, secondo la voce di Eraclito di Efeso. Si avvia con un tono davvero
alto la poesia del libro “Prossimità” di Nina Nasilli. E’ una corrente
poematica in verticale che evoca assunzioni e svolte a contatto con
un’ontologia imprevista...”si principia sempre da un caso/ come le cose che
appartennero, il pensiero/ che le tocca”. La percezione deterge una pluralità
di stimoli naturali e riferimenti intertestuali, quasi che il vigore della
nitidezza filtrata possa annunciare imminenze e svelamenti, fremiti e passaggi,
ferite e rifioriture, per citare un titolo che fu di Giuseppe Conte. Si
sviluppa un flusso che accompagna nelle veglie di deserto, nelle radici
profonde, tra memorie che irrompono e tenerezze che disarmano. L’umano contende
al ritmo delle sillabe la potenzialità della scolta e l’attardarsi di un
ritorno. Molti i riferimenti letterari e pittorici, da Arthur Rimbaud e Amelia
Rosselli a Giacomo Balla e Umberto Boccioni, attraverso un intrecciarsi di
stimoli e rimandi veicolati dall’intervento di strofe, successioni, timbri
anaforici. La sezione “Mente cordis sui” si apre con una citazione da Pessoa e
deterge con particolare grazia la prossimità di un sentimento amoroso, per
merito della domanda di “un poco di immortalità/ soltanto un petalo/ dorato/
dal sole di un tramonto/rosa”, poiché si evidenzia che “né sempre né mai il
presente è adesso”, nel porsi sospensioni che coinvolgono Bellezza e Spirito,
accolgono le compostezze della conciliazione, filtrano e interpretano le ferite
primaverili, coinvolgono accenni ad Eliot e Whitman, e su tutto cala poi una
passionale intenzione di purificare la colpa da noi partorita, comprendere come
potrebbe essere chiamare non più profano ciò che è stato reso sacro, separato
dal limite. Ma allora davvero, a differenza di quanto viene sostenuto dai vari
percorsi intrisi di materialismo,nessun evento solo umano può dirsi assoluto;
così come non c’è esito di salvezza nel solo alveo immanente. Anche ogni
traccia di prossimità implica comunque la conoscenza dell’ente che s’incontra,
e ciò attualizza la stringente necessità di una rinascita metafisica già
attuatasi, tra l’altro, nei primi anni Duemila e più specificamente e
sorprendentemente in ambito analitico (ma non solo, se pensiamo ad un’opera
come “Il frammento e l’Intero” di Carmelo Vigna). Gli enti prossimi rimandano
al senso più profondo di un essere che sa dirsi Essere e può nominare, chiamare
a sé le cose, rivelarne la partecipazione. Nina Nasilli si muove con acutezza e
perizia “tra una certezza/ di finalmente esistere/ e un’altra”, dove sia infine
un’acqua di valenza intima e nello stesso tempo emblematica, a lavare dai
lutti; a rigenerare le vicinanze patite o desiderate, nella sensazione tutta
interiore ma resa visibile dalla scrittura, di un’anima capace di vedere la
notte con occhi non corporali, come rappresentò nel brano di un suo testo John
Williams. La sezione “Appunti di viaggio in Amore” coinvolge la potente forza
evocativa de “Il libro dell’inquietudine”. Ancora Pessoa, dunque, per inseguire
le tracce di prossimità nella coscienza (o incoscienza), scrive Nasilli nelle
note, di chi ci ha preceduto. Dimora delle attese possibili, riferirsi
all’altro, “prestando l’attenzione dovuta, però/ a questo giocato tra-passare/
che non sia come l’incertezza scoperta/ del bianco d’azzardo/ su una tela
grezza d’indugi”; l’autrice si spinge oltre, verso un’acquisizione in tonalità
allitterante: “non avverte vertigine/ chi non sfida il vertice:/ fondato così
un nuovo Regesto”, un raccogliere quindi, citando l’opera antologica del poeta
Massimo Scrignòli. Il percorso strofico in asimmetriche tramature inerpica il
dissidio a contrastare passività improprie, volendo determinare invece
un’ermeneutica panica, simbolica, evocante il destino maieutico della poesia
più duttile e più fertile, quando diviene autentico strumento di conoscenza,
nostro scopo antropologico, come affermava Brodskij. La sezione “Domenicali
bianchi” è pervasa da ulteriori riferimenti biblici, in particolare dal Libro
dei Salmi, in richiesta d’attesa e di sacro avviamento verso auspicio di
domanda e confessione...”e dopo i corvi i crocali/ le cornacchie cumane/ i rovi
i campi/ dopo i bivacchi i falchi/ le cattedrali”; poi la pagina si fa doppia,
intesse un controcanto riflesso che indaga la separatezza rilasciata dalla
dialogante ripercussione estensiva apparente quasi come finalità corale,
attraverso il pudore, che non è timore, di concedere spazio ad una inquietudine
che pungola caparbia e si rinnova, si rispecchia. Il desiderio è oltre, è
grato, chiede “che tutto duri/ che tutto sia/ stare a guardarsi/ e-non
mancarsi”. Assistiamo, dunque, ad un vero teatro di personaggi che veicolano
stimoli culturali innestati nella passione dei sentimenti, nella prerogativa
poetica di richiamare alla testimonianza l’accortezza più vigile assorbita
dalla pagina nella nudità intima del testo che rinnova riferimenti al “cuore
travestito” di Paul Celan e all’amore impossibile espresso da Marina Cvetaeva.
Affiora forse, tra le righe, una liminare disillusione? Una traccia di tremore
al rischio d’incomprensione? Se l’assenza è, per Nina Nasilli, di noi la più
certa prossimità, un passo inatteso potrà forse condurci verso la visibilità di
una poesia filologicamente creativa perché liberata dai lacci del solo
dicibile, attraverso un ulteriore, sofferto, estremo confronto col Tempo: “ma
se tu sei notte/ io, l’ultimo baluginio del giorno/ prima che sia sera”.