paolo ruffilli
LETTERA PER PAOLO RUFFILLI "AFFARI DI CUORE" (Einaudi, 2011, €12,00)
Davvero un incidere lieve e sincopato evoca i rapidi e puntuti gesti di una danza verticale, dove i corpi sono segmenti di un'inesausta architettura dei tracciati fisici, nel gioco/lotta dei sensi. L'amore diventa luogo esso stesso ad ospitare le tracce, le storie, gli impulsi, le tentazioni, i rimandi, i sogni, gli equilibri imprevisti, taciturni o urlanti; seduzioni orchestrate in cui il poeta dirige i passaggi tenui o violenti, i ruoli di protagonista e vittima. Dimentichiamo balsami o pomate, edulcorate attese o melodie notturne; l'epicentro esatto è nella lotta, nelle corde che fisicamente legano i corpi e li espongono agli assalti insaziabili. Un'eco del cannibalismo evocato a suo tempo, in chiave provocatoria, da Pasolini, qui è reinterpretata invece da Ruffilli nel registro più propositivo e possibile dell'attesa onirica. Un testuale andare, poi, suggerisce i rimandi delle numerose rime e assonanze presenti nei versi a definire il recupero disegnato da un codice musicale intento a simulare quasi il rapido, incessante, rumore dei flussi e degli abbandoni alla fisicità come conoscenza. Se in una precedente opera di Ruffilli si leggeva sull'essere in accordo con il filosofo che ci ha insegnato come noi
siamo quello che mangiamo, qui l'afflato della incisione nella carne ci dice che siamo, ancor di più, secondo il modo in cui amiamo. Ma proprio da un simile stato l'impossibile sviluppo torna a mostrare come, in realtà, ogni rapporto
coltivi il disinganno, l'equilibrio che non torna, la comunque inalienabile mancanza di effettiva reciprocità nello specifico rapportarsi. Come, ancora, il nostro desiderio ogni volta si scontri con l'abisso interiore che separa ciò che viviamo da ciò che vorremmo vivere.
Paolo
Ruffilli, “Le cose del mondo”, (Mondadori Libri, 2020)
La memoria rievoca una essenziale definizione di
esperienza che ci veniva ripetutamente citata presso l’istituto di Estetica
dell’ateneo bolognese: “quella infinita serie di relazioni tra ciò che diciamo
io e ciò che diciamo mondo”; così nella partitura più vasta espressa dalla
neofenomenologia critica che aveva in Luciano Anceschi un maestro esemplare.
Nello stesso ateneo si è formato anche Paolo Ruffilli, nome tra i più noti
della odierna poesia italiana, autore di numerose opere poetiche, ma anche
esiti in narrativa, biografie, curatele. “Le cose del mondo” si propone come un
sorprendente risultato frutto di un vero e proprio “work in progress” durato
dal 1978 al 2019, parallelamente agli altri lavori dell’autore. Sempre e
comunque con la preoccupazione di mantenere un preciso filo conduttore in tutta
la sua stesura quarantennale, quale opera poematica di certosina attenzione
verso il concreto mondo delle cose, nei continui rimandi e rispondenze
attraverso il linguaggio poetico. Sì, per Ruffilli, la parola viene da lontano,
da un’origine che chiede ricerca ed esige un vocabolo poetico che si sceglie
perché in quel caso non sostituibile con nessun altro; che si carica di valenze
tali da rendere la parola, nell’occasione, necessaria. La particolare
limpidezza del verso breve caratterizza una scrittura che ha trovato
riferimenti nell’opera di poeti come Gozzano, Montale, Caproni, ma che,
innanzitutto, continua ad assimilare le preziose suggestioni che giungono dal
sublime magistero dantesco. L’avvio è dato dal tema del viaggio, il senso del
rapportarsi alle dinamiche del moto (e del mutamento) attraverso il contatto
con i luoghi, gli spazi. “E’ proprio andando che si capisce/ qual è il
rovesciamento di ogni prospettiva./ Perché, restando fermi, sfuggiva in pieno/
che è una questione del tutto relativa” scrive l’autore, confermando una sua
nitida perizia compositiva, inoltrata in un dicibile qui però reso capace di
oltrepassare l’osservazione iniziale, consueta, ed elevarsi ad un timbro che
cerca l’immaginosa verità della parola, in attuazione di sensibili rimandi
fonetici e severa accortezza nell’uso calibrato della rima. L’elemento visivo
si fa evidente confermando il dato e nello stesso tempo superandolo per tendere
ad un intimo significato che non sarebbe stato possibile cogliere in modo così
nitido, senza quella particolare sosta linguistica. Ruffilli riesce a creare
nella specificità di ogni singolo testo un raro effetto d’equilibrio
compositivo che sembra rispondere ad una esigenza di ordine interiore, quasi
frutto di una pratica di meditazione. Il poeta si caratterizza nella
osservazione minuziosa dei particolari, degli aspetti anche quotidiani che,
evidenziati, diventano indicazioni preziose di rimandi a contenuti che lo
sguardo consueto abitualmente non coglie. Così come affondare il bisturi negli
aspetti più intimi dei rapporti e dei ruoli, delle temibili assuefazioni da
evitare attraverso le vitali reazioni di quegli stimoli che concedono
rivisitazione fertile dei sensi aperti alla vocazione interrogativa. Tanto più
necessaria e terapeutica ci giunge questa poesia, in una stagione epocale che
ha da tempo sacrificato tutto l’ambito dell’espressione umanistica a vantaggio
di un’arida esaltazione tecnologica finalizzata esclusivamente ad obiettivi
economici. La parola poetica può, oggi, anche se da un territorio liminare,
esprimere la valenza teoretica di una capacità d’osservazione che si fa
conoscenza non del dato in quanto tale, ma del suo significato più svelante,
imprevisto e, di conseguenza, del suo destino. E’ una consapevolezza di mistero
ulteriore che abita la coscienza, anima un pensiero che “ resiste alimentandosi
di niente/ da quel che nel profondo oscuro/ emerge, e sente di essere
straniero.../ l’altrove, il cielo...il trascendente”. Così si avvia un
confronto serrato e filtrato anche attraverso le cose quotidiane e materiche;
enti presenti nella loro natura ontologica e allo stesso tempo resi
protagonisti dell’innegabile divenire insito nell’unità dell’esperienza.
L’umile bicchiere, ad esempio, “sbrecciato, andato in pezzi dopo essere caduto./
La forma, incontenibile, di un contenuto”; oppure la finestra “filtro di
scambio tra il fuori e il dentro,/ tappo dell’immenso espanso a dismisura”, o
il letto “porto sicuro e perno del giorno/ che svolta rapace, rotte le sponde/
nel tuffo, nel pozzo, in mezzo alle onde”. Tutto acquista, in questo procedere,
un tono sapienziale che rimanda ad intimità ulteriori, a connotati
rintracciabili solo superando nettamente il livello della prima ricezione;
evidenziando il nostro percepire negli aspetti che sanno riconoscere l’elemento
stesso quando si fa strumento, come negli organi del corpo analizzati in una
sezione del libro impostata come vero e proprio atlante anatomico, rendendo il
dato fisico protagonista di una pagina che ridisegna i ruoli delle sue singole
parti. Il centro è determinato da propulsione esigibile e percettibilmente
offerto dal flusso del linguaggio nella sua più composita capacità di ricerca,
pur all’interno del limite a cui siamo inevitabilmente ancorati dalla nostra
natura: “Ecco che di colpo riesco a dare/ corpo all’ombra, si stacca la parola/
dal groviglio e dà forma al fantasma/ figlio del sogno che si sveglia/ e
respira il respiro della vita/ con il suo peso e con la meraviglia...”. Paolo
Ruffilli ci confida, con questo suo articolato lavoro, la vocazione insita
nella profonda maieutica che cura, reinterpreta e interroga le cose del mondo.