Thomas Bernhard
Thomas Bernhard "Sotto il ferro della luna" (Crocetti Editore, 2015)
Non è facile cogliere tutte le sedimentate raffinatezze che appaiono alla lettura dei versi di Thomas Bernhard, tradotti da Samir Thabet, e che compongono “Sotto il ferro della luna”. Lo sforzo umano nascosto dietro ai passi singoli e ancestrali determina la fenditura visibile oltre la coltre delle nebbie persistenti e incombenti. Sono elementi di una natura sacrificata al gesto perenne di chi viola l’accordo implicato nel sottrarsi ai dovuti silenzi e ai troppo spesso mancanti o, meglio, rari sacrifici. E’ il temporale dei lupi che investe il destino sidereo e le falci dei versi. Bernhard, magistrale scrittore, qui esprime un suo segno poetico nel procedere strofico specificamente controllato sul piano tecnico, assolvendo la ferita subìta nei possibili gesti e negli atti capaci di evolvere verso una presa d’atto infausta, raminga “di nuvola in nuvola” e guerriera quanto la sete estiva. Colline e monti conducono a piogge folli e sogni foschi, come gli amori perduti o mai raggiunti. C’è un sentire distanze insuperabili nei saccheggi del cuore, nelle spoliazioni luttuose riportate a consapevoli abbandoni. Notti e lune rese dormienti dagli aculei ghiacci, dai tremori concessi ai travagli proibiti. “La pioggia di questi giorni/ arriva solo fino al cuore arrugginito della notte.../ dove la luna trema davanti alla tela” e anche la passione deve fronteggiare cadute e lamenti, sassi e pianti; le stagioni calde sono compiante, le costole dei boschi nude. Elaborazioni sofferte di lutti portano Bernhard al confine panico delle migrazioni, dei peccati ingrigiti; le mura che crollano sono metafore di disperazioni soffuse dalle radici profonde; le confidenze eretiche impediscono canti e consolazioni così come gli aneliti ingenti dissotterrano ire ed armi rivisitate in una estrema ribellione. Le vie di legni e di mulini sono oltre i boschi neri della solitudine, quando i mesi diventano tappe di una dissoluzione ferrosa, in umori amari persistenti e inutilmente vigili. “Mostrami la pozza da cui sale la tua rabbia”... nei frantumati livori “e la polvere d’antiche estati nel vento della sera”, muovendosi verso eremitaggi distanti dalle mai amate città. Le fasi invernali incutono il timore e a volte la certezza dell’esito inascoltabile e affranto; conducono al passo estremo della resa. Solo sul mare, i gabbiani sembrano esprimersi “nell’allegrezza di cuori indomiti”, attraverso una osservazione che permette al poeta di cogliere l’attimo immediatamente esigibile, nell’ipotesi del problematico divenire. Crescono ferite all’ombra di quella parola buona così difficilmente identificabile nel protrarsi delle angosce agitate che ci abitano in quanto figure di una composizione drammatica poiché “quando morenti chiudiamo le finestre opache/ viene la primavera/ che ci è sfuggita in marzo”.