poesie sparse
LE ROVINE DEL SEPRIO
Castrum Seprium destruatur
et destructum perpetuo teneatur
et nullus audeat vel praesumat
in hipso monte abitare
(28 marzo 1287)
I
La notte, in un sol tempo, copre il giorno
e le speranze, invano lamentate.
Per vicendevole pietà – attorno
è silenzio di cose contemplate –
a te mi stringo, amica, nel rintocco
del vespro che estende ore segnate.
Ed una chiesa di stile barocco,
incerta, si leva a forma di croce:
e si quieta il passo allo scirocco
che improvviso insorge e, veloce,
verso una quercia arabesca, incolore,
mentre si spegne ora la mia voce:
e un apolide senso del dolore
investe ogni mio gesto, e la memoria
ricusa anche il passato, lo splendore
del tempo, architetto della storia,
pietra gelida del Seprio, annerita,
distrutta già per sempre la tua gloria
per tutti divenuta proibita.
E come questa torcia sui sentieri,
che adombrano la via ormai imbrunita,
si smorzano nel buio i miei pensieri.
II
Là in basso Torba in immoto verde
di robinie cova – tozzo torrione –
l'Olona. E in lontananza si disperde,
in mezzo ai prati, un'allegra visione.
Sosto per riprendere un po' il fiato
ed orecchio, intanto, una canzone
di fanciulle – amore spesso violato,
che gioca triste in quelle loro rime:
e se ne va il ricordo incontrastato.
Così fugge il tempo, fra le rovine,
sui colli, dentro ai campi cromati
da umide stazioni varesine:
ruderi vani, strumenti stonati
d'un borgo che appare ormai dissolto
come un coro di cantori evirati,
cane che abbaia dalla bruma avvolto.
Rimane, allora, la speranza sola
- fiore appassito senza esser colto –
così resisto privo di parola,
fra i sospiri e gli abbracci dell'amica
che, stesa qui sull'erba, mi consola.
III
Nella sera ti albergano fantasmi,
che la luna appende sui merletti,
tra languori, memorie ed entusiasmi.
Non c’è pietà se un capitano errante,
per accuse ingiuste e vani sospetti,
pugnalò d’Ada il corpo amante.
Nel mezzo della notte, sopra Orino,
sopravanzi così, rocca diruta,
relegandomi infine al tuo destino:
quello che fosti e quello che ora sei:
pennellata di quadro prealpino
disciolto in un crepuscolo di dei.
IV
Questa vaga isoletta,
fida custode delle parlanti Reliquie
dei primitivi popoli lacustri,
la Società Italiana di Scienze Naturali,
qui convenuta il 26 settembre 1878,
all'ospite gentile acclamando,
nomava "Isola Virginia”.
Lagostagno, che smarrisci il cuore,
all'isola Virginia mi trasporti
fra le alghe – e l'anima ne muore.
Con l’umido caldo ferragostano,
oltre il cielo, rimasto incolore,
una vela s'inalbera lontano.
E i lucci, in quest’acque acherontèe,
remeggiano fra alteri cigni bianchi
come Vestali sacre, corifèe.
Pescatori al largo, indifferenti,
s’abbandonano a refoli improvvisi,
cullati dalle onde sonnolenti.
Pellicole raccolte da profano,
con l'obiettivo, sempre volto attorno,
a scandagliare qualche caso strano,
svelato avanti lo sbasir del giorno:
prima che la calandra rubi il grano,
prima che ti rapisca l'alicorno.
V
Nella penombra, si discioglie il cuore,
meandro di vicoli ancestrali,
e s'apre la terra al nuovo sole.
Disiecta membra, mentre t’accarezzo
rivedo le rovine del contado,
come respiro simile a marezzo.
E penso all’odio che ci fu al tempo
in cui regnava Ottone dei Visconti,
che distrugger volle il Seprio
per imporre il volere di Milano.
Ora, restano quei sassi a testare
che inutile fu quel gesto: e vano.
Rimane solo un tempio mutilato,
qualche muro, un’effigie bizantina:
un affranto edonè diseredato.